Una Biennale di riscatto. L’opinione di Santa Nastro
Ha la capacità di far discutere la Biennale veneziana curata da Cecilia Alemani. Qui Santa Nastro spiega perché e riflette sulle peculiarità di una rassegna tutt’altro che accomodante
Tra i molti meriti che la Biennale di Venezia a cura di Cecilia Alemani ha avuto c’è quello di fare imbufalire una grande quantità di uomini di tutte le generazioni. Lo dimostrano la messe di post, commenti, appunti che la guerrilla social sta scatenando dal primo giorno di pre apertura, anche tra gli operatori del settore. Il latte dei sogni, dislocandosi nelle sedi tra Giardini e Arsenale e influenzando, come di consueto avviene, la maggior parte dei padiglioni nazionali in Laguna, ha, come ormai noto, operato una sorta di riscrittura della storia dell’arte, emancipando e riscattando quei punti di vista e le storie fino a ora rimaste escluse in un panorama governato da una visione patriarcale e occidentalizzante, lasciando quindi quanto meno disorientati la maggior parte di coloro che da quella visione, anche inconsapevolmente, si sono sentiti rassicurati (perché si è sempre fatto così) coccolati, o supportati.
Molti accusano la Alemani di aver strizzato troppo l’occhio al politically correct, soprattutto all’immaginario che ci proviene dagli Stati Uniti, Paese che peraltro può per certi versi vantare di aver conquistato il Leone d’Oro conferito a Simone Leigh e nel quale ha costruito la propria vita la curatrice. Ma è evidente che se ha creato e continua a creare tutte queste discussioni, la mostra troppo comoda proprio non è. Tuttavia, senza entrare in quello stile di argomentazione da guerra tra bande che tanto caratterizza i dibattiti odierni, è possibile comunque operare qualche riflessione critica.
UNA BIENNALE DI RISCATTO
Molti di noi non hanno potuto fare a meno di apprezzare lo sforzo enciclopedico che caratterizza l’intero progetto espositivo, dando voce a una storia dell’arte alternativa. I cinque focus in mostra, su tutti La culla della strega, disseminati tra le due sedi e incorniciati dal bell’allestimento dei Formafantasma, hanno offerto ampi spunti di studio e di ricerca, portando alla luce nomi e vite a volte del tutto sconosciute e offrendo una traccia, una linea, avrebbe detto Longhi, a molte ricerche successive. Ai nomi più noti di Dorothea Tanning e Leonora Carrington abbiamo potuto accostare quelli di Benedetta, Ida Kar, Alice Rahon, per citarne alcuni e imparare qualcosa di più su di loro. Dall’altra parte però la cronologia dell’esposizione mostra uno scenario composto da più di sessanta artisti nati tra gli Anni Settanta e Ottanta, una decina di nati negli Anni Novanta, una ventina di nati tra gli Anni Cinquanta e Sessanta, oltre 80 artisti deceduti e la restante quarantina di nati tra gli Anni Trenta e Quaranta. Una scelta, che però denota, a fare bene i conti, una certa introversione verso il passato, con una buona metà di partecipazione che riscatta artiste che non ci sono più o che presenta opere di maestre ormai storicizzate. È una scelta, in larga parte condivisibile, colta ed encomiabile che però destruttura quella che sembra (o che a questo punto sembrava) essere la funzione principale della Biennale, una rassegna che mostra il meglio dell’arte contemporanea degli ultimi due anni, (lasciando il dubbio che forse tra molti anni bisognerà recuperare gli artisti rimasti esclusi oggi).
O almeno la aspettativa per molti era quella.
LE MOSTRE A VENEZIA DURANTE LA BIENNALE
Ma c’è da dire che anche le mostre in città non hanno guardato alle nuove generazioni. Fatta esclusione per alcuni importanti progetti come Penumbra, promossa da In Between Art Film, di cui abbiamo già ampiamente parlato, o la mostra di Francesca Leone, promossa da Nomas Foundation, o ancora Sterling Ruby sulla facciata di Palazzo Diedo, tra gli altri, le grandi fondazioni in città hanno scelto consapevolmente di guardare ai grandi maestri: Kapoor, Kiefer, Nauman, Nevelson, Dumas per citarne solo alcuni, con operazioni per lo più gigantiche e muscolari – anche se ovviamente con mostre in larga parte bellissime ‒, che a un certo punto hanno fatto venir voglia di cercare respiro tra i progetti degli artisti più giovani e midcareer, la bella personale organizzata da Case Chiuse, il progetto di Paola Clerico, dedicata a Tomaso De Luca, Barahonda da BardaDino, che offriva anche l’occasione di visitare studi di artisti giovani e giovanissimi, De Rerum Natura, al Circolo della Marina prossimo all’Arsenale, con opere di artisti come Lucia Veronesi, Francesco Simeti, Giovanni Ozzola, Matilde Sambo, tra gli altri.
C’è un po’ la sensazione generale di un sistema dell’arte che nel guardare a valori consolidati si sta cristallizzando in un presente perpetuo e attendista. Non è solo una questione di mercato – anche se la riflessione condotta dai più è stata fatta, anche a causa della presenza massiccia delle gallerie. Nel libro Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea edito da Castelvecchi nel 2017, Ludovico Pratesi opera una interessante ricostruzione della Biennale e racconta, a proposito della Biennale americana del 1964, Leo Castelli e Ileana Sonnabend sostenere Rauschenberg e Johns allora poco più che trentenni sulla più importante piattaforma internazionale. Un’immagine che ci lascia riflettere rispetto alla nostra attuale attitudine verso il futuro. Quel futuro che ad esempio si intravedeva in maniera molto chiara nel mirabolante video di P. Staff che apriva e chiudeva idealmente la mostra ai Giardini alla Biennale. Un video che racconta l’arte del domani, una installazione, un sound, che sembrano veramente venire dall’altrove, da Venere, ora, adesso, tra molti anni.
‒ Santa Nastro
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