Museografica e di ricerca. La Biennale di Venezia secondo Sara Dolfi Agostini
La critica d’arte e giornalista Sara Dolfi Agostini ripercorre la mostra internazionale curata da Cecilia Alemani alle Corderie e al Padiglione Centrale dei Giardini, mettendola in relazione alle scelte dei singoli padiglioni nazionali
Alla 59. Biennale di Venezia emergono due progetti politici e ideologici prima che estetici, ed entrambi offrono un punto di rottura con un sistema dell’arte elitario sotto diverse prospettive, di genere e di rappresentazione. Da un lato c’è Cecilia Alemani, la curatrice della mostra internazionale che già dal titolo – Il latte dei sogni, preso in prestito da un libro di favole della surrealista Leonora Carrington – promette un’azione programmatica di valorizzazione dell’opera di artistә, donne e persone non binarie. Le opere dellә 213 partecipanti stipano pareti e volumi e, per quanto le etichette non riportino i courtesy di gallerie, si candidano a riempire gli stand delle prossime fiere e a riequilibrare una dominazione maschile nel mercato e nelle collezioni internazionali. Per il resto, Il latte dei sogni è una mostra istituzionale dall’impostazione museografica classica e una forte componente di ricerca storica esibita nelle cinque capsule del tempo trans-storiche e trans-artistiche sviluppate in collaborazione con Formafantasma.
LA MOSTRA ALLE CORDERIE
A cominciare dalle Corderie, dove la progressione è quella canonica, dal naturale all’artificiale, seppure declinata in un universo matriarcale, eco-femminista e mutante, talvolta ripetitivo ma carico di presenze eccellenti. Dalle figure archetipiche di Simone Leigh e Belkis Ayón si passa ai forni-idoli di immaginifiche culture precolombiane di Gabriel Chaile; accanto ai “corpi profughi” dei dipinti di Felipe Baeza si trovano le creature irrequiete di Marianna Simmett, i costumi futuristici di Lavinia Schultz e Walter Holdtz, le figure robotiche pop di Kiki Kogelnik. Poi ci sono le esplorazioni identitarie di matrice Black di Sondra Perry e le presenze artificiali di Lynn Hershman Leeson, fino ad arrivare alle trasmutazioni robotiche viscerali di Mira Lee e a quelle giocose di Geumhyung Jeong.
LA MOSTRA AL PADIGLIONE CENTRALE
Al Padiglione Centrale, il corpo, la sua assenza ma più spesso la sua ibridazione è l’elemento di convergenza tra organico e meccanico. I corpi eterei e poetici di Cecilia Vicuña fanno da contrappunto alla mercificazione sessuale di bambole in rete nella video installazione di Sidsel Meineche Hansen, mentre la compilation di estasi cinematiche di Nan Goldin echeggia nei corpi sospesi di Miriam Cahn. Alemani dispiega mondi interiori, domestici o contenuti in una cornice che raramente si intrecciano con forme di dissenso, realtà politiche e sociali, e il disagio di cui si legge nelle biografie dellә artistә – invisibilità, dolore, esilio, maternità – resta espressione di un universo onirico, a volte statico e speculativo.
I PADIGLIONI NAZIONALI
All’estremo opposto di questa visione curatoriale compatta e a tratti esoterica, ci sono i padiglioni nazionali, alcuni dei quali hanno risposto alla sfida di Alemani mettendo in discussione la propria identità e i contenuti artistici in modo più aperto, critico e militante. Tra i giardini e le corderie, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, Polonia, e Paesi Nordici hanno selezionato artisti e curatori in modo più inclusivo, sfidando il principio di un Paese rappresentato da una monolitica maggioranza culturale, e ciò si è riflettuto in forme originali e dinamiche di narrazione nonostante i temi scomodi e irrisolti del colonialismo e della diaspora. Altri padiglioni, invece, hanno puntato su questioni incalzanti come razzismo, riscatto sociale e alienazione – tra questi Canada, Grecia, Finlandia, Belgio e Romania –, restituendo comunità diverse e complesse, che spesso non hanno conosciuto il privilegio di chiudersi in casa durante una pandemia.
‒ Sara Dolfi Agostini
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