Biennale di Venezia. L’opinione di Antonio Grulli
Antonio Grulli inizia la nostra carrellata di valutazioni a caldo della Biennale di Venezia 2022 curata da Cecilia Alemani. Con una menzione anche per i padiglioni nazionali (non quello italiano) e le mostre in Laguna
Sono ancora molto fresche le mie sensazioni su questa Biennale intitolata Il latte dei sogni ma proverò a stendere un commento a caldo. Mi sembra che Cecilia Alemani sia riuscita a creare una mostra davvero molto bella – in un senso quasi classico della parola –, forte, allestita in maniera perfetta e, elemento fondamentale e fondante di ogni esposizione, con molte opere di grande qualità.
È una Biennale dalla forte impronta surreale (come era nelle intenzioni), legata al presente, all’oggi, ma in grado di andare oltre: si relaziona a molte questioni del politicamente corretto, oggi dominanti la discussione pubblica in quasi tutto l’Occidente e soprattutto nell’America in cui la curatrice vive, ma da queste non viene soffocata, non ne è irrigidita, e il tono retorico emerge solo raramente in alcune delle didascalie ma non nelle opere; il rischio c’era.
Vi è tanta pittura figurativa, cosa impensabile qualche anno fa, mentre mi sembra di aver notato una minore presenza di video rispetto alle edizioni passate: una scelta probabilmente giusta viste le dimensioni di questo tipo di manifestazioni, che costringono a visite lunghe molte ore.
LA MOSTRA DI CECILIA ALEMANI AI GIARDINI DELLA BIENNALE
L’impressione è che il Padiglione centrale dei Giardini sia più riuscito dell’Arsenale. Alcune sale spiccano, come il grande e dovuto tributo a Paula Rego, uno dei pochi giganti dell’arte ancora viventi, di cui vengono presentate tele di qualità assoluta e sculture indimenticabili per forza e capacità di perturbare nel profondo. Anche lo spazio dedicato all’artista svizzera Miriam Cahn o la grande stanza in cui le sculture in vetro colorato di Andra Ursuta, che sembrano uscire da Mad Max, dialogano proficuamente per contrasto con il rigore dei lavori a parete – dall’aspetto morbido ma dall’anima affilata come un rasoio – di Rosemarie Trockel.
L’opera che ho amato di più è senza dubbio il video di Nan Goldin intitolato Sirens, realizzato negli ultimi tre anni utilizzando, per la prima volta nella sua carriera, solo found footage; è un’ode struggente a Donyale Luna, attrice e top model morta di overdose nel 1979. Nell’opera è ritratta attraverso i film in cui ha recitato, diretta da registi come Kenneth Anger, Andy Warhol e i nostri Federico Fellini e Carmelo Bene, per cui incarnò letteralmente una Salomè dalle sembianze aliene. La colonna sonora è una musica per fischio realizzata dalla compositrice Mica Levi, e solo un soffio che esce dalle labbra può accompagnare un video incentrato su un’anima tanto luminosa quanto fragile: credo nessuno sappia abbinare musica e immagine come Nan Goldin, qui alla sua prima (!) Biennale di Venezia. Questo è senz’altro il lavoro più fresco, semplice, pulito e profondo della mostra, ed è proprio il tipo di opera che vorrei veder uscire dagli studi dei giovani artisti, speriamo suoni come sveglia.
L’unico dubbio che ho rispetto all’intera manifestazione è dovuto alla forte presenza di artisti del passato già deceduti, come mi ha fatto notare un’amica artista. Non è la prima Biennale in cui questo accade, e ormai è una pratica sdoganata: per sviluppare la propria teoria, il curatore può effettivamente attingere ovunque, ma forse queste dovrebbero tornare a essere le manifestazioni in cui viene presentata la nuova produzione di artisti giovani e non, potenzialmente con uno sguardo verso il futuro.
GLI ITALIANI ALLA BIENNALE DI VENEZIA
Interessante e matura la presenza degli artisti italiani giovani. Su tutti spicca la monumentale installazione, all’esterno della manica lunga dell’Arsenale, di Giulia Cenci, che segna un ulteriore passaggio nella sua crescita professionale dimostrando di essere ormai nel novero dei nostri artisti di livello internazionale, in grado di reggere un confronto duro come quello di una Biennale e di non temere una scala gigante, che pochi in Italia hanno il coraggio di praticare. Credo che il suo lavoro possa essere considerato uno dei migliori esempi di come andare oltre Duchamp nella scultura riappropriandosi della plasticità, della figurazione e di soggetti considerati morti – come l’elemento equestre – senza puzzare di nostalgia.
Meno riuscito l’inserimento degli artisti italiani delle generazioni precedenti, in alcuni casi presenze di cui non ho capito la necessità e la coerenza con il tema generale.
LA MOSTRA DI MARLENE DUMAS E IL PADIGLIONE DI FRANCIS ALŸS
Tra gli eventi collaterali ci tengo invece a menzionare la mostra antologica di Marlene Dumas a Palazzo Grassi: un capolavoro. Si tratta di un’enorme antologica in grado di riassumere la carriera di uno dei più grandi artisti viventi. Rispetto alla grande mostra a lei dedicata alcuni anni fa – itinerante tra importanti musei come la Tate – mi sembra che, in questo caso, siano riusciti a realizzare qualcosa di ancora più vibrante e toccante; la selezione delle opere è virata verso la parte di lavori più legati alla sessualità e meno agli aspetti politici. Una rappresentazione dell’umano resa in maniera liquida e lirica, ma capace di conservare come qualcosa di prezioso tutta l’ambiguità e i lati in ombra dei sentimenti e delle sensazioni legate al corpo e al desiderio.
Fiacchi invece i padiglioni nazionali, almeno per quello che sono riuscito vedere. Salvo rari casi, come quello del Belgio con FrancisAlÿs. Mi sembra di percepire che difficilmente tra questi vi sia qualcosa in grado di lasciare il segno, come capitò con il Padiglione tedesco di Anne Imohf.
– Antonio Grulli
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