Qual è il legame fra arte e dolore?
Esperienza comune all’intero genere umano, il dolore può essere un valido strumento per fare arte. Un’arte radicata nel presente e lontana dall’essere un passatempo
La prima volta che hai sentito il dolore hai pensato di essere il solo a provarlo. Che stupido. Non capivi da dove potesse arrivare, ma ti ci sei affezionato e il vostro rapporto è diventato da allora intimo, segreto e poi morboso perché hai cominciato a fare affidamento su di lui per ogni scelta da dover prendere e quando ti ha lasciato per qualche istante perché stavi ridendo con i tuoi amici o perché c’era qualcuno in quel momento ad amarti, il pensiero è corso immediatamente a lui e alla paura di averlo perduto per sempre, esattamente come Desideria teme, ogni volta che le disubbidisce, di aver perso la Voce (Alberto Moravia, La vita interiore, 1978). Soltanto quando sei riuscito a riagganciarlo sei tornato a stare bene. Poi è arrivato un momento in cui hai capito che tutti soffrono, anche coloro che hai reputato, senza dirlo ad alta voce, superficiali. I tuoi compagni di corso, i tuoi colleghi, i tuoi amici, i tuoi fratelli soffrono anche loro, anche loro sentono un dolore occulto e lontanissimo come una eco che, vi dite, forse è un fatto generazionale, forse proviene dai vostri antenati, persino potrebbe esservi stato lasciato in eredità dal primo uomo comparso sulla Terra. La consapevolezza del dolore altrui ha spezzato un meccanismo di esclusività che ormai costituiva un punto fisso nella percezione di te stesso. Eri così perché sentivi dolore ma adesso che tutti sentono dolore tu sei uguale agli altri.
GLI ARTISTI E IL DOLORE
Tutti sentono e forse tutti provano a trasformare il dolore, ma tra l’artista e gli altri c’è una differenza. L’artista è il bufalo che può scartare di lato e cadere e gli altri sono locomotive che dal punto A raggiungono il punto B, in linea retta. Cioè, può essere anche che per loro non sia così facile come ho scritto, che a un certo punto facciano pure una deviazione, che incontrino delle difficoltà, subiscano ritardi, ma la locomotiva arriva sempre a destinazione, questo è un dato di fatto. L’Arte è, invece, il modo ‒ il solo ‒ di non arrivare mai, senza nemmeno star fermi. È mescolare continuamente e allargarsi e provare e rimanere sempre nel proprio, non allontanarsi troppo, neanche quando si sperimenta, farlo piano. Chi fa arte non arriva mai alla fine del segmento, non conclude mai il ragionamento, ma traccia segni tutt’intorno, unità geometriche senza dimensione né quantità. Non arriva mai e nemmeno indugia, manipola il dolore antico del presente senza saper dire quale sarà il risultato finale. Non può esserci un’arte che non abbia radici ancorate al dolore, che è ben diverso dall’impegnarla o caricarla di propaganda politica. Il dolore è arte in potenza e l’arte è l’esperienza del dolore in germe. Chi sceglie di dedicare la propria vita all’arte lo fa proprio perché sa che il dolore può essere trasformato, innanzitutto per sé, che il dolore non è sterile, ma cosa viva e trascurarlo, sedarlo, anestetizzarlo, dimenticarlo significa renderlo vano. Il dolore vale più del tempo e vale molto più del concetto di “ispirazione” che qualcuno ha costruito per allontanare l’esercizio artistico dal rigore del lavoro intellettuale e dalle fatiche di quello manuale.
“Il dolore è arte in potenza e l’arte è l’esperienza del dolore in germe”.
Dal momento che ciò che è esposto molto spesso viene identificato con l’opera d’arte in sé, trascurando l’esperienza umana e il racconto doloroso del presente che stanno dietro a essa, è importante, perché l’arte torni a essere considerata necessaria e non soltanto una consolazione, un vezzo, un fatto di élite, un passatempo con il quale escludere l’altro o, peggio, sottometterlo ponendolo in condizione di non potere comprendere ciò che sta guardando, riportare l’osservatore e lo stesso artista a fare una esperienza, a vivere pienamente il presente come farebbe un animale, i cui sensi sono egualmente “sul chi vive” (John Dewey, Art as experience, 1934). Proviamo a eliminare le parole dal gioco dell’arte o, perlomeno, a ridurle il più possibile. Le spiegazioni, le elucubrazioni mentali, gli arzigogoli filosofici in cui tendiamo a imbrigliare l’opera non fanno altro che rendere il divario che esiste oggi tra arte contemporanea e società contemporanea un’enorme voragine in cui entrambe, ai due vertici opposti, sono impoverite e monche di realtà. Eliminiamo tutto ciò che sta intorno per capire se l’opera si regge sulle proprie gambe e portiamo le persone dentro l’opera e dietro l’opera, a ritroso, fino a ricalcare il gesto dell’artista, fino a sentire in quel gesto il dolore primordiale di cui conserviamo il medesimo ricordo e di cui la vita è continua esperienza.
‒ Carmelania Bracco
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