Un viaggio nella pittura di Pier Paolo Pasolini
Nel centenario della nascita, continuiamo a celebrare il grande Pier Paolo Pasolini. Dopo il suo rapporto con l’Africa, approfondiamo il suo lato più strettamente artistico, da cui emergono tematiche poi ampiamente sviluppate nei libri e nei film
Pier Paolo Pasolini (Bologna, 1922 ‒ Roma, 1975) fu un intellettuale di respiro europeo, profondamente impegnato nella riflessione sulla crisi morale dell’individuo moderno, sulla scia di autori come Robert Musil e del suo giovane Törless, o Franz Kafka e del suo paradossale Gregor Samsa. Senza sconti per nessuno, l’opera letteraria e cinematografica di Pasolini è in gran parte caratterizzata da brutalità, tensioni psicologiche e sessuali, che però trovano inattesa e relativa quiete nei dipinti e nei disegni che realizzò in vari periodi della sua vita. In perfetto accordo con il suo carattere critico e tormentato, Pasolini è un eclettico in fatto di arte. Si ispira in parte all’Espressionismo, in parte a De Pisis e Bonnard, e in parte frequenta intime atmosfere familiari tardo ottocentesche, venate di lirismo pascoliano; da liceale compone poesie in friulano, un modo per scoprire le radici che gli vengono dalla madre, nata a Casarsa della Delizia, e per meglio osservare quell’ambiente in cui crebbe e si formò dall’infanzia alla prima adolescenza, e dove sarebbe tornato per diverse estati. Nonostante descrivesse il paese materno come “grigio e immerso nella più sorda penombra di pioggia, popolato a stento da antiquate figure di contadini e intronato dal suono senza tempo della campana”, lo immortala più volte, insieme alla campagna circostante, in affettuose vedute di sapore impressionista, luminose, gravide di silenzio e di attesa, sospese nel tempo come i paesaggi di Cesare Pavese. Ma la sua non è una pittura di maniera, non dipinge per un pubblico, per ricevere un accademico plauso; dipinge per se stesso, per fissare sulla tela o sulla carta, con tempera, olio, china, pastello o carboncino, quei pensieri cui dava forma anche attraverso le parole, mano a mano che il suo intelletto raggiunge la maturità e si relaziona con il mondo.
LA POETICA DEI VOLTI IN PASOLINI
L’individuo è al centro delle riflessioni di Pasolini, e non stupisce che larga parte della sua produzione artistica sia composta di ritratti e autoritratti. È da se stesso, infatti, che prende le mosse ritraendosi con pirandelliana reminiscenza nell’Autoritratto con fiore in bocca (1947), il cui volto cereo sembra suggerire la caducità dell’esistenza, mentre quelle strisce di bianco pagliaccesco aggiungono un tocco sardonico, accentuato dalla pastosità espressionista della pennellata. Negli Anni Cinquanta e Sessanta tralasciò quasi del tutto la pittura in favore del disegno, più sintetico e immediato, che in mezzo a bozzetti di gusto tardo-ottocentesco con sottili richiami a Lautrec, e frequentazioni dell’Espressionismo, rivelano uno stile tutto personale, scarno ma intenso, fortemente narrativo. Quelle decine di bozzetti di ragazzi e ragazze nelle più svariate pose, sin dai tempi di Casarsa, anticipano i giovani borgatari, i “ragazzi di vita” che cattureranno l’interesse antropologico di Pasolini a partire dal decennio successivo, e saranno i protagonisti di tanti suoi lavori. Atteggiamenti intimi, contemplativi, carichi di silenzio, che ricordano anche certi personaggi di Pavese, nell’ennesima analogia fra i due intellettuali,
Pasolini si dedicò molto anche ai ritratti di amici e colleghi, fra cui Ninetto Davoli, e, nelle prove degli Anni Settanta, quei volti assumono toni particolarmente intensi: ritraendo Roberto Longhi, maestro degli anni universitari, Pasolini ne indaga con affetto le caratteristiche fisiche e psicologiche, omaggiandone la forte personalità; Maria Callas viene invece effigiata come una dama rinascimentale o un’aristocratica dell’Antica Grecia. E non casualmente era stata lei, nel 1969, a interpretare la sua Medea.
L’INDIVIDUO, IL MITO E L’ANTICO SECONDO PASOLINI
Pasolini dipinge per una sorta di urgenza emotiva strettamente personale, per recuperare anche attraverso l’arte, il legame con la tradizione. In particolare, dagli Anni Sessanta, quando ormai vive stabilmente a Roma, la pittura diventa un mezzo per osservare e commentare la realtà umana che lo circonda, come del resto fa con la scrittura e con il cinema. Pasolini è stato, infatti, un intellettuale profondamente interessato all’individuo e alla sua psicologia così come alla sua libertà; quella trasgressione che spesso emerge dalla pagina scritta o dalla pellicola, nella pittura è però lasciata da parte.
La sua stagione pittorica della maturità si era aperta nel 1947 con la Donna col fiore azzurro, una figura magica ed evocativa, dalla bellezza misteriosa, che il velo nero accentua e che si pone a metà fra una sciantosa e una dea, con quelle calze oscenamente rosse e quel volto ovale vecchio di millenni su cui spiccano le labbra tumide. Misteriosa al pari della zingara dipinta da Giorgione nella Tempesta, una maga e una sacerdotessa alla stregua di Medea, anch’ella senza radici, sensuale e sofferente insieme.
L’attività artistica di Pasolini può essere considerata, in molti casi, una sorta di prologo dei suoi libri e dei suoi film, dei quali in retrospettiva arricchisce il punto di vista. Dipingendo, Pasolini cerca la forza del passato che cancella le contraddizioni del presente; paventava infatti la distruzione della bellezza da parte del capitalismo e della tecnologia alienante, paventava gli ammassi di cemento delle periferie in cui leggeva soltanto il pericolo (come poi è accaduto) di generare pericolose “bombe sociali”. Una parte della sua produzione artistica è legata anche a questa battaglia, da lui strenuamente combattuta ma che purtroppo non ha trovato alleati. E proprio in Narciso, ancora del 1947, con reminiscenze cubiste, Pasolini racconta la morte della bellezza, ritraendolo in una grottesca posizione contratta, quasi fosse diventato, come Gregor Samsa, uno scarafaggio; metaforicamente, Narciso è ormai intrappolato nella ragnatela di se stesso, rimane soffocato dalla ragnatela della sua vanità, che sembra intravedersi nell’immagine specchiata. Un altro filone dell’indagine di Pasolini emerge dal Ragazzo che suona il mandolino (1967), dagli spiccati tratti africani, figlio dell’interesse per il Continente Nero nato nel 1961 con il progetto Il padre selvaggio, e che proseguirà nel ’69 con il viaggio in Uganda e Tanzania. Un volto, quello del suonatore, che conserva la purezza primitiva dell’Antichità, e che nei termini della riflessione sociale pasoliniana si può anche leggere come un richiamo alla purezza del popolo italiano prima che si trasformasse nella borghesia meschina e materialista del “miracolo economico”.
‒ Niccolò Lucarelli
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