La censura da Michelangelo ai social network
Questione spinosa e sempre attuale, la censura sui social network affonda le radici in tempi lontani: ricordate lo “scandalo” della Cappella Sistina?
Quanto l’arte sui social sia bersaglio della censura è noto. Ne so qualcosa io stesso: la mia pagina Mo(n)stre è sempre più vittima, specialmente su Facebook, delle ire di Meta. L’ultima pietra dello scandalo è stata la copertina di Vanity Fair Italia con Mahmood e Blanco allo stato brado (ma con i Paesi Bassi ben coperti), peraltro mixata con il mosaico ravennate raffigurante Giustiniano e il suo seguito: ma quale oscenità, si rimuova subito e si punisca il pornografo! Poco prima questa sorte era toccata a una miniatura del XV secolo (sic), raffigurante una scena di autoevirazione, peraltro postata spesso in passato: ma questa volta la scena era associata a una didascalia (“Cosa potranno fare i No Vax dopo il 6 dicembre”) che prendeva in giro (direi in maniera bonaria e, in fondo, intrisa di umanità) gli oppositori dei vaccini anti-Covid, i quali non hanno gradito, hanno segnalato il post e ne hanno ottenuto la rimozione.
IL POTERE DELL’ALGORITMO
Il problema non è solo la cancellazione del singolo post: il colpevole è sottoposto a punizioni via via più severe, quali l’impossibilità di postare e commentare per alcuni giorni e un deciso ridimensionamento della distribuzione dei post una volta che può farlo di nuovo. Impossibile, o comunque molto difficile, protestare o anche solo sapere quando il castigo avrà termine. Perlomeno Michelangelo (si parva licet…), saputo che papa Paolo IV, come riporta Vasari, voleva fargli “acconciare” il Giudizio, perché “disonesto”, poteva mandare a dire al pontefice “che acconci egli il mondo, che le pitture si acconciano presto”. All’alba del terzo millennio non si sa nemmeno con chi prendersela: a manovrare la mannaia non c’è un essere umano, ma il misterioso, totemico “algoritmo”, che celebra in ogni suo imperscrutabile decreto il trionfo della macchina sull’uomo. Gli errori e gli arbitrî, naturalmente, abbondano: seni dipinti presi per veri, seni veri di cui non si vogliono capire le ragioni (come quelli legati alla sensibilizzazione sul tema del tumore al seno), l’utilizzo di certi termini travisato e punito, perché non se ne colgono la sfumatura ironica, l’uso provocatorio, il carattere di citazione.
“I social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa”.
Quando la Rete si è affermata, pareva che si dischiudesse un’epoca di sconfinata libertà, di creatività senza barriere. I rischi della riduzione di tale libertà, di cui pure si è iniziato a parlare da subito, sembravano remoti, e invece eccoci qua: i social hanno fagocitato un bel pezzo di utenza, e la libertà di cui si gode al loro interno è molto relativa. Ovviamente io, come chiunque amministri una pagina social, sono parte del problema: con la mia attività su Facebook e Instagram contribuisco a tenere in piedi e a rafforzare il monopolio. Chi è dedito a rivisitare e divulgare l’arte è in cerca di soluzioni: qualcuno è migrato altrove, come i musei viennesi che hanno aperto un profilo sulla piattaforma per adulti OnlyFans. Si spera che le proteste e gli abbandoni rendano più sensibili su questi temi i responsabili dei maggiori social (anche nell’ottica della tutela dei loro stessi interessi, in primis commerciali), e che l’arte – del passato come del presente – e la creatività siano trattate con maggiore rispetto e senza ottusità.
‒ Fabrizio Federici
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #28
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