Tre studenti provano a raccontare Schiele, Magritte e Ghirri

Misurarsi con i capolavori dell’arte non è mai semplice, ancora meno quando si decide di descriverli dal proprio punto di vista. Tre studenti della NABA di Milano ci hanno provato

È una pratica complessa quella dell’ecfrasi, che può implicare la descrizione di un’opera d’arte non in maniera accademica o didascalica, ma personale e fortemente espressiva. Gli studenti del Corso di Critical Writing, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali della NABA di Milano hanno sfidato alcuni mostri sacri del secolo scorso.

Articoli elaborati nell’ambito del corso di Critical Writing, Biennio in Arti Visive e Studi Curatoriali, NABA – Nuova Accademia di Belle Arti, a.a. 2021/2022

EGON SCHIELE, GIOVANE NUDO DISTESO SU UNA COPERTA DECORATA, 1908

Di primo acchito sembra uno qualunque, senza una storia notevole da raccontare.
L’unico guizzo è che stavolta è nudo, libero da ogni orpello. Non è morto, è solo adagiato sul covo dell’intimità.
Immediatamente spicca il colore dei suoi capelli e dei peli del suo pube: verde mela. Niente di più che la connotazione chiara e precisa di un ragazzo di diciotto anni circa, in cerca della sua affermazione nel mondo degli adulti. In equilibrio tra due pesi indefiniti, tra il battere e il levare, tra il silenzio e il tuono.
Sopraffatto dal suo stesso piacere, se ne sta con gli occhi chiusi a pensare alla sua breve vita. Nonostante abbia vissuto così pochi anni, ha la consapevolezza di quanto il tempo sia fugace. È un pensiero ricorrente, gli logora la mente. Se non si ritira nelle sue paturnie almeno una volta al giorno, non riesce ad affrontare l’indomani.
Rimuginare gli fa bene, perché quell’istinto che abbiamo ereditato dagli animali in lui è totalmente assente. Fa un passo avanti solo quando il piede sa dove atterrare.
Anche questa elucubrazione diventa un ulteriore motivo di riflessione e, proprio quando non ne può più, si spoglia. Diviene per pochi istanti corpo senza testa tramite la masturbazione, quell’atto che precede l’annullamento totale delle emozioni.
Ma prima, sprigiona una serie fitta di immagini intrise di volgarità che si annida nella testa. Le scabrose perversioni e i desideri più reconditi sgomitano per prevalere le une sugli altri. Si affastellano violente, rapide, ancora e ancora, fino a raggiungere un picco di piacere incontrollato. Il rilascio di dopamina e serotonina permette al corpo di liberarsi di tutto lo stress e le tensioni accumulate durante la giornata. Solo per beneficiare di istanti di pura apatia. Ecco il motivo di questa pratica quotidiana: per un attimo straborda tutta la carnalità del mondo e subito dopo si crogiola nell’assuefazione della perdita della libido.
È il godimento della stasi, semplicemente degli arti immobili su una coperta scura con motivi a contrasto.
Per la sua armonia sembra quasi di essere di fronte al Discobolo di Mirone a riposo. Si potrebbe tracciare un arco, che passa dal braccio sinistro contorto dietro il capo, fino al piede destro a penzoloni; e una seconda linea a serpentina che trova la sua origine dal braccio opposto disteso sull’inguine, seguendo la gamba piegata fino al piede poggiato sul letto.
Nonostante il centro della rappresentazione sia il suo sesso e la mano che gli fa da cornice, l’attenzione si sposta sulle palpebre abbassate. Quel particolare conferisce pace al volto, un apparente districamento di nervi che sembra rispecchiare il complesso paesaggio psichico dell’effigiato.
Lo sfondo oro non permette di immaginare nient’altro sul contesto in cui vive il soggetto. Potrebbe essere la storia di chiunque, magari di un’icona simbolo della modernità, sulla scia dei maestri bizantini. Si potrebbe chiamare Egon Leo Adolf, terzo figlio di Adolf Eugen e Marie Schiele. Ripercorre le tappe principali in un giorno ordinario: i fallimenti scolastici, la rinascita in accademia, il desiderio di sostegni, il tormentoso rapporto con le donne.
Riuscirà mai a vivere della sua arte considerata corrotta, perversa e pornografica dalla comunità viennese? Il suo stile di vita e le sue scelte fuori dal comune contribuiscono ad attirargli critiche negative, arrancando nel panorama contemporaneo.
Quello che fa è pura espressione di sé, un interesse rivolto ai processi psichici e spirituali personali, dimenticandosi di ciò che la natura ha donato. Tutto ruota intorno alla malinconia, alla solitudine, alla disperazione, ai misteri della sessualità e alla morte… al solo racconto esperito.
Forse quel ragazzo vuole andare via da Vienna molto presto. Questa società lo disgusta. La gente è invidiosa di lui, è subdola; i colleghi più maturi lo guardano con ipocrisia. Tutto è ombra a Vienna, la città è nera, tutto sa di imposizione. Vuole stare da solo e andare nel Böhmerwald.
Ma a questo, caro giovane nudo disteso su una coperta decorata, penserai domani.

Federico Bianchini

Egon Schiele, Nackter Knabe auf gemusterter Decke liegend, 1908

Egon Schiele, Nackter Knabe auf gemusterter Decke liegend, 1908

RENÉ MAGRITTE, L’IMPERO DELLA LUCE, 1954

I miei passi riecheggiano sui sampietrini della pavimentazione, il rumore rimbalza tra i muri delle case e il marciapiede, per poi disperdersi nel vuoto, il canale che scorre lentamente di fianco a me riflette la luce giallognola e calda dei lampioni già accesi.
Dalle finestre aperte delle case che fiancheggiano il canale escono rumori sommessi, da una perfino della musica, lontana, ovattata, anch’essa si disperde nell’aria. Il brusio della vita privata di una dozzina di persone che si ritrovano a vivere vicine, ognuna isolata nella propria abitazione.
Mi fermo e guardo in su, nonostante i lampioni siano già accesi e la strada sia immersa nell’ombra, il cielo non si è ancora fatto scuro, il bagliore del giorno resiste alla sera anche se ormai il sole è nascosto dietro le case. In fotografia la chiamano l’ora azzurra. La temperatura è piacevole, regala una certa immobilità nella quale non è possibile percepire la differenza fra corpo e atmosfera, diventa come un liquido amniotico perfettamente calzante sulla pelle. Nell’aria c’è già l’odore della primavera, un odore femminile, un po’ onirico, come l’etere.
Continuo a camminare nell’atmosfera ovattata, sembra che il mondo esterno si allontani sempre di più, come se fossi entrata in una dimensione parallela. Il mio sguardo si alterna fra l’azzurro del cielo e la strada scura, l’ossimoro tra la luce e ombra, tra la sera che è già calata sulla strada e il giorno che continua a resistere. Inspiro profondamente. La distanza con il mondo reale si è ormai fatta siderale. A primo acchito, la differenza di illuminazione tra strada e cielo mi dà un senso di vertigine, un capogiro accompagnato da un brivido lungo la schiena, poi questa sensazione si trasforma in rassicurazione, in pace infinita. Il tempo sembra abbia fermato il suo scorrere. Mi godo l’immobilità di quell’atmosfera rarefatta, sotto la luce artificiale del lampione e quella naturale del cielo. Da qui posso ammirare l’ossimoro dell’esistenza in cui ciò che è contrapposto convive e si compenetra. Le case, le luci, il silenzio diventano uno spazio meditativo in cui poter guardare la vita per quello che è: una coesistenza di ossimori, perfetti e unici nella loro combinazione.
Quando voglio cercare un momento di pace chiudo gli occhi e lo ritrovo lì: l’Impero delle luci.

Giulia Tortora

René Magritte, L'Empire des lumières, 1954. Musées royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

René Magritte, L’Empire des lumières, 1954. Musées royaux des Beaux Arts de Belgique, Bruxelles

LUIGI GHIRRI, RONCOCESI, 1992

Roncocesi, inverno 1992.
Il fotografo cammina solitario lungo l’argine che costeggia la via di casa.
In questo punto della Pianura Padana le ore non esistono e nemmeno i punti cardinali.
Tutto appartiene a una geografia indistinta.
Davanti a lui il paesaggio deserto e infinito. In mezzo a tutto quel nulla si scorge a fatica una sagoma: un uomo di spalle che cammina a passo svelto, non c’è modo di identificarlo. Il suo profilo è appena percepibile e quasi si dissolve nella nebbia.
È lei ad avanzare o siamo noi? Non saprei dirlo con certezza.

Prima di scomparire per sempre nel silenzio una sera del 1992, Luigi Ghirri coglie con una fotografia l’ultima parvenza dell’umano in questo angolo di terra. Lo scatto rimane impresso su un rullino mai terminato e sviluppato solo dopo la sua morte, nel quale si ripete sempre lo stesso misterioso soggetto: la nebbia. Gianni Celati, scrittore e suo grande amico, diceva che nell’ultimo periodo Ghirri aveva infatti deciso di voler fotografare il “respiro della terra” (Gianni Celati, Ricordo di Luigi, fotografia e amicizia in Lezioni di Fotografia, Quodlibet, 2010) e che parlava sempre più spesso del suo lavoro come qualcosa che volgeva lo sguardo all’invisibile. A pensarci bene, andare alla ricerca di questo fenomeno atmosferico non doveva essere una scelta del tutto casuale per uno che come lui conosceva bene la pianura.
Nascere qui significa subirla, la nebbia, come una perenne coltre di malinconia. È avere la sensazione che niente di straordinario possa mai accadere, che oltre le geometrie dei campi arati, le strade sterrate, gli aironi appollaiati lungo i fossi e le case coloniche tutte uguali non esista nient’altro, e che se mai esistesse sarebbe sempre troppo distante da noi. Ma vivere la pianura costituisce anche un inconsapevole allenamento all’immaginazione: la nebbia ti costringe, che lo si voglia o no, a porti domande, a ricostruire il mondo poco per volta man mano che si dispiega davanti a noi.

Dove finisce la strada? La vedi?
Non lo so, è tutto bianco”.

Lo raccontava sempre Ermanno che tutti in paese chiamavano Franco, non si sa per quale motivo: nell’inverno del 1985 la nebbia era talmente fitta e bassa sulla terra da far scomparire le strade. Una sera lui e sua moglie, a bordo di una Fiat Ritmo sulla strada provinciale tra Bologna e Ferrara, erano stati costretti a fermarsi. Lui era sceso dalla macchina lasciando la donna al posto del conducente, aveva percorso a piedi qualche metro e gesticolando le aveva gridato “vieni avanti!”, seguito da una sonora bestemmia. Il resto del viaggio verso casa era stato così, avanzando pochi metri alla volta. Era tutto bianco anche quella mattina in cui Elena aveva solo otto anni e veniva dalla campagna in biciletta per andare a scuola; aveva nel cestino delle uova fresche come regalo per l’insegnante. Nell’attraversare il solito ponticello, che collegava le due sponde dell’argine, aveva perso l’equilibrio e cadendo a terra le aveva rotte. Tornata a casa quel giorno si era messa a piangere mortificata e incolpava tutta quella foschia bianca intorno per averla distratta.
La nebbia confonde, è assenza di riferimenti e al tempo stesso la compresenza di tutte le cose. Quando l’attraversi puoi fingere di essere ovunque o di scomparire per sempre come l’uomo in questa fotografia, immortalato un attimo prima di dissolversi nel nulla. Forse in questo scatto sono condensate tutte le nostre identità incerte e smarrite mentre è ciò che ci circonda a chiedere di essere guardato e immaginato, espandendosi oltre il campo visivo verso l’ignoto. Ghirri considerava le campagne come gli ultimi luoghi dove è ancora possibile avere delle visioni; quando ho visto per la prima volta le foto che aveva lasciato di questi spazi brumosi ho avvertito un improvviso affetto per qualcosa che noi anime delle pianure abbiamo sempre sopportato a fatica. Invece era come se fosse arrivato qualcuno a dirci che, forse, i nostri luoghi andavano bene così com’erano, che quello che stavamo cercando era già qui e non c’era bisogno di guardare altrove. Che ci era ancora concesso stupirci.

Martina Nardi

Egon Schiele, Nackter Knabe auf gemusterter Decke liegend, 1908

Egon Schiele, Nackter Knabe auf gemusterter Decke liegend, 1908

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Redazione

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