L’arte non può più fare a meno della sua comfort zone?
Senza l’imprevisto e una relazione attiva tra opera e spettatore, l’arte diventa vittima della sua stessa comfort zone. Proseguono le riflessioni di Christian Caliandro sull’arte sfrangiata
David Foster Wallace nella pagina di Una cosa divertente che non farò mai più (1997) citata alla fine della scorsa puntata, scriveva: “Un annuncio pubblicitario che fa finta di essere arte è – quando va bene – come quando qualcuno vi sorride cordialmente solo perché vuole qualcosa da voi. Questo è già disonesto, ma il peggio è l’effetto finale che tale disonestà suscita in noi: poiché esso offre un perfetto facsimile o simulacro di buona fede senza il vero spirito della buona fede…”.
In fondo, è questo il centro di tutta la riflessione in questa serie. La differenza tra ‘cordialità interessata’ e buona fede. Possiamo, o potete, anche pensare che questa differenza non riguardi affatto l’arte contemporanea, che sia del tutto fuori contesto, un dettaglio insignificante ‒, ma la riguarda eccome (e così riguarda, molto probabilmente, ogni altro aspetto della nostra esistenza individuale e collettiva). Wallace aveva intuito, come del resto spesso gli capitava, un fenomeno che in quel momento storico era agli albori, ma che si è poi diffuso ovunque, si è espanso e si è approfondito. Venticinque anni dopo, infatti, la stragrande maggioranza delle opere d’arte è di fatto “un annuncio pubblicitario che fa finta di essere arte”. Anche qui, potete benissimo dire che questa è un’ipersemplificazione, oppure che in fondo è sempre stato così – eppure, in fondo, sapete che è ciò che è accaduto.
E naturalmente non è qualcosa che lascia intatte tutte le funzioni e tutti i ruoli, perché questo ‘dettaglio’ ha mutato completamente lo scenario, il gioco, il sistema di relazioni. “Il vero spirito della buona fede” di cui parlava Wallace, infatti, è profondamente connesso al fatto che l’arte vera fa i nostri interessi di spettatori/lettori, mentre l’arte finta, cioè la pubblicità travestita e camuffata da arte non sta mai facendo i nostri interessi, perché sta facendo regolarmente quelli di qualcun altro (chi la finanzia).
ARTE E AUTENTICITÀ
Non siamo concettualmente tanto lontani dall’“autenticità” che costituiva il nucleo delle riflessioni di Carla Lonzi negli Anni Settanta: autenticità dell’opera, dell’artista, e della relazione di entrambi con lo spettatore/spettatrice. Ancora una volta, in termini se possibile ancora più rigidi rispetto a quaranta o a cinquant’anni fa, ci troviamo in un territorio nel quale ogni proposizione, ogni proposta, ogni dichiarazione rientra in uno schema di potere, vale a dire è inserita all’interno di un rapporto totalmente squilibrato. Il fatto stesso che, tutto sommato, nel sistema ufficiale e istituzionale dell’arte questo aspetto non sia generalmente percepito come un problema – cioè il fatto che sia abbastanza assodato il “come” un’opera si debba comportare e debba funzionare – è la misura di quanto rigide siano oggi le posizioni e le posture.
Le posizioni e le posture perché, se ci pensiamo, né l’artista né lo spettatore sembrano volere abbandonare, o mettere in discussione, le proprie (quelle cioè abituali). Probabilmente, solo la possibilità della “cura”, vale a dire la possibilità di stabilire un rapporto di natura affettiva con l’opera – cioè, per esempio, che non siamo solo noi a prenderci cura di essa ma che possa essere anche essa, a un certo punto, a prendersi cura di noi – è in grado di scardinare materialmente questo stato di cose, senza alcuna violenza, senza aggressione o aggressività, ma in maniera porosa e permeabile. Del resto, la sfrangiatura funziona così, nei due sensi: a perdere contorni e margini non sono solo io (autore o spettatore), ma anche e forse soprattutto l’opera stessa nei nostri confronti e nei confronti della realtà.
Anche questa è una dimensione, non secondaria, dell’imprevisto.
ARTE, ABITUDINE E IMPREVEDIBILITÀ
Qualcosa del genere, in maniera più misteriosa e affascinante, diceva Josif Brodskij nel suo Discorso di accettazione al Premio Nobel per la letteratura (10 dicembre 1987): “E per quanto riguarda questa sala, penso che era vuota solo un paio d’ore fa e che sarà vuota di nuovo tra un paio d’ore. La nostra presenza tra queste pareti, e la mia in particolare, è del tutto occasionale dal punto di vista delle pareti. In sostanza, dal punto di vista dello spazio, la presenza di chiunque è solo occasionale, a meno che uno possieda una qualche caratteristica permanente – e in genere inanimata – del paesaggio: la caratteristica di una morena, poniamo, di un cocuzzolo, di un’ansa fluviale. E ciò che crea il senso dell’occasione è l’apparire di qualcosa o qualcuno di imprevedibile entro uno spazio avvezzo al proprio contenuto” (in Dall’esilio, Adelphi, Milano 1988, p. 66).
Temo che, tra le altre cose, l’arte di questi tempi si sia trasformata proprio in questo: uno spazio avvezzo al proprio contenuto.
‒ Christian Caliandro
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