I topi nell’arte e nella società umana
Come è cambiato il ruolo dei topi dal punto di vista degli artisti? Da essere malefico a icona estetizzata, una panoramica sulle vicende del roditore per eccellenza
“Welcome to Hell” recitava un topolino di Banksy risalente all’inizio del terzo millennio. Presagio di tutti i disastri a venire. La ripugnanza nei confronti del topo rinvia ai limiti della nostra umanità. Ieri topi e ratti rappresentavano bene le marginalità, convivevano con i dannati come quelli dipinti da Goya nell’ospedale degli appestati. Personificavano il lato oscuro delle città: il Male. Oggi sono ben visti, accolti e arredano lussuosi salotti. Nei primi Anni Ottanta del secolo scorso (1982) in Italia fecero breccia i grandi ratti informi e drammatici della pittrice napoletana Rosa Persico. Il critico d’arte Achille Bonito Oliva li intercettò e li incluse in una serie di mostre, di cui una dal titolo apocalittico: Evacuare Napoli del 1985. Da allora i topi hanno conosciuto una lunga storia fino a diventare un gadget estetico.
Guardiani delle fogne, seminatori di peste come nel film Nosferatu, oggi sono sentinelle di un’estetica forzatamente edonista. I topi d’oggi hanno lo smoking e, come il bonario e innocente Topolino di Walt Disney, sono diventati un divertissement. Niente a che vedere con il teatro della crudeltà che la loro visione generava, come è accaduto nel film Joker di Todd Phillips, dove, sotto le spoglie di un clown a volte vestito da Topolino, un uomo escluso da ogni forma di relazione sociale per le violenze subite fa strage degli umani divenuti nel frattempo più feroci e bestiali delle bestie.
Neutralizzati della potenza infestante e dissacratoria che era loro attribuita, oggi le immagini di topi nell’arte sopravvivono come tenere creature di un mondo divenuto più vampiresco del vampiro. La bestialità incontrollata che si attribuiva ai topi, il loro essere rappresentati nell’immaginario collettivo come l’ultimo gradino tra le specie animali, legittimava la loro uccisione. La loro animalità era lo specchio anamorfotico della nostra umanità. Ucciderli deliberatamente ricorda arcaiche sopravvivenze, come quelle dell’uccisione rituale del capro espiatorio, tributo alla collettività per l’espulsione del male. È come se la rappresentazione malefica dei topi ci avesse preceduto nello sterminio reale dell’uomo sull’uomo. E come osservava Jacques Derrida dopo Adorno, “animale è una parola che gli uomini si sono arrogati il diritto di dare”.
“Schiavi, sfruttati e topi hanno questo in comune: sono prede. E ogni preda è sostituibile con qualsiasi altra. Il loro valore è zero”.
Bisogna riconoscere che l’animalità è sempre stata una fissazione degli uomini. Come quella rappresentata nei capitelli delle chiese gotiche, dove l’ibridismo uomo-animale è oggetto di terrore e di fascinazione; lì le immagini del bestiale alimentavano un metabolismo tra il reale e l’immaginario, erano immagini dello scambio metaforico. I topi, con altri animali, sono stati la soglia iconica di questo scambio simbolico. Per molti secoli il Male è stato visto nel serpente e in tutte le sue metamorfosi sataniche, ossessione dei cristiani. Poi le cose con la modernità sono cambiate. La nascita delle metropoli ha comportato la convivenza con i topi. La Londra della prima metà del XIX secolo, nei racconti dei suoi contemporanei, tratta dei poveri alla stregua di topi, che convivono con essi. Da allora l’immagine dei topi ha sempre fatto parte della miseria urbana, e anche delle contraddizioni della società capitalista. D’altra parte, schiavi, sfruttati e topi hanno questo in comune: sono prede. E ogni preda è sostituibile con qualsiasi altra. Il loro valore è zero. Non sono alani, tigri o leoni o altre razze coltivate come segno di potenza da imperatori, dittatori e neo-oligarchi, che però non hanno mai superato l’immaginazione surreale di Caligola che nomina senatore a vita il suo cavallo e poi si autoproclama Dio.
Oggi la potenza iconicamente sovversiva dei topi è tramontata, superata da un sistema che si vuole democratico, integrato e globale. Nel 1937 John Steinbeck pubblica Uomini e topi. Un gigante di nome Lennie è consapevole della sua mole, ma mentalmente è un bambino. I suoi movimenti grossolani a volte uccidono piccole creature. George, invece, è piccolo di statura ma di grande acume, capace di sopravvivere a tutte le difficoltà della vita, come i topi. Tuttavia, non saprebbe vivere senza il gigante. Ecco l’intelligenza dei topi: non sarebbe tale senza l’idiozia dei giganti.
‒ Marcello Faletra
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #65
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