L’arte in Italia è anche una questione di filosofia
Italia solo pizza e mandolino? Scardiniamo questo cliché pensando a quanto arte e filosofia siano legate nel nostro Paese. A partire da una mostra scomoda passata quasi sotto silenzio
Bella. Anzi bellissima. Anzi, e mi concedo anche il solecismo di un doppio dativo, così bella che, a me, l’Italia, mi piace. Mi piace tutta, da una costa all’altra, da una riva di lago a una spiaggia di mare, da un agrumeto siculo a un ghiaione delle Dolomiti, dalle lagune chiozzotte alle nevi che non ti aspetti sul Gennargentu o sul Gran Sasso. Ma, oltre che geograficamente, mi piace anche storicamente: perché come ti giri in una città qualunque, rischi di imbatterti in una cappella romanica, in un affresco barocco o in un edificio razionalista. O anche in riusciti esempi di architettura contemporanea. E poi filosoficamente, dato che, se ci si pensa bene, per il Paese relativamente minuto che siamo, con una lingua che è praticamente sconosciuta all’estero, abbiamo regalato al mondo una fila di geni che gli altri si sognano.
Eppure, niente, continuiamo a maledire questa nostra Italia come la “Terra delle mezze verità”, e, non potendo prendercela con nessuno fuor che noi stessi, continuiamo a odiarci ferocemente in un modo che, visto da fuori, risulta incomprensibile e finanche comico. Sarebbe come vedere un coreano che maledice la Samsung, o un francese che non vuol essere sepolto al Panthéon “perché ci sta quell’altro”: un atteggiamento autolesionista che gli altri popoli, per fortuna loro, non conoscono. Ho provato spesso a spiegare questo sentimento nostrano ad amici stranieri, ma senza successo. Non lo capiscono. Anche perché, come quasi tutti nel mondo, ci amano. E allora perché noi ci odiamo tanto?
“C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica”.
Queste riflessioni mi vengono alla mente davanti alla retrospettiva dedicata a un arci-italiano come Julius Evola, sottotitolata significativamente Lo spirituale nell’arte, che è un richiamo assai cogente non tanto a Kandinsky quanto a quello che mi pare il tratto più specifico di una certa “estetica italiana”. Un tratto che consiste proprio nel nostro innato spiritualismo.
C’è poco da fare, lasciate che gli altri si illudano prendendoci per un popolo sensuale, tutto mandolino e prelibatezze – noi sappiamo di essere da sempre la terra della metafisica. Non c’è filosofo nostrano che non abbia scritto d’arte, e non c’è artista italiano che non abbia flirtato con qualche filosofia: de Chirico era influenzato da Schopenhauer, Piero Manzoni aveva studiato l’esistenzialismo e Piero Simondo – il vero creatore del Situazionismo – si era laureato con Abbagnano. Per citare Pasquale Panella, in Italia anche chi ignora la filosofia “è immerso in essa comunque / e di essa è intriso / come un cardo dal gambo reciso” – e per i nostri artisti questo è vero in un modo così squisitamente unico che Evola, ancorché sia assai più famoso per i suoi libri di taglio iper-hegeliano (Fenomenologia dell’individuo assoluto) o le sue ricerche sul pensiero alchemico o tantrico (Metafisica del sesso), è stato anche esponente di un dadaismo artistico inimitabile.
Ma… già sento echeggiare un grido lacerante: “Evola è fascista!”. Quindi, in base a un insopprimibile automatismo ideologico, che deve ridurre per forza qualunque pensiero a cliché di se stesso, lui, la sua opera, la complessità delle sue idee, va tutto cancellato, depennato, annientato, e così ciò che lo riguarda, come sembra testimoniare lo strano silenzio mediatico che è subito calato su questa iniziativa del MART.
D’accordo: come non detto.
– Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #67
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