Il tatuaggio è un surrogato dell’identità?
Sempre più smarriti e in cerca di identità, gli individui che popolano la società contemporanea trovano nel tatuaggio un’ancora di salvezza. Ma non dovrebbe essere compito della cultura fornire gli strumenti per costruirsi la propria identità?
Si è fatto tanto nei secoli di esistenza umana per imbastire comunità, costruendo memoria a beneficio di tutti, mentre in questi ultimi decenni di società liquida sembriamo essere sempre più smarriti. Nel passato, religione e territorialità hanno costruito con ogni strumento – anche il più sanguinario e cruento, a dire il vero – le comunità, la riconoscibilità in un gruppo sociale che dia senso all’esistenza e alla vita. Il Novecento è stato un periodo di grande confusione sociale. I conflitti mondiali ne sono stati i due momenti più apocalittici, ma tutto il secolo è costellato di “scouting emotivo alla ricerca del sé”, tanto collettivo quanto individuale.
Consumismo, scolarizzazione, tecnologie hanno semplificato la vita materiale ma pure complicato quella psicologica. Probabilmente per mancanza di schemi e regole chiare all’interno dei quali il membro di qualsiasi gregge sociale si deve saper muovere. I social network ai loro bagliori sembravano l’esplosione della socialità: si ri-trovano i vecchi amici persi di vista, si trovano persone che conosciamo solo di vista.
“Avere identità è un bisogno. Costruirsela un privilegio”.
Insomma, l’azzeramento della soglia di accesso a qualsivoglia rapporto umano. Eppure, a guardare la parte più attiva della società – sebbene anche quella più acerba, i 15-45enni –, è evidente un diffuso smarrimento. Le sue manifestazioni sono dappertutto: le crisi coniugali, la liquidità sessuale, l’instabilità lavorativa, la crisi delle nascite, le depressioni ecc.
Avere identità è un bisogno. Costruirsela un privilegio. Ci vuole grande forza e intelligenza per definirsi autonomamente un sé sociale. Identificarsi in qualcuno circostante è la via più facile e rassicurante. Anche la più adatta, per gran parte delle persone. Si cerca identità in una fede sportiva, religiosa, politica. Addirittura ci si marchia il corpo per farsi riconoscere.
IL TATUAGGIO COME FORMA DI IDENTITÀ
È uscita una ricerca che ha vagliato il dilagare del tatuaggio proprio come necessità di darsi un vestito permanente. Un tempo il tatuaggio era un marchio di virilità (tralasciando quelli più squisitamente religiosi di alcune comunità arcaiche). Oggi quasi tutti i giovani delle società ricche occidentali sono tatuati, spesso molto o integralmente tatuati. Come se gli occhi, la bocca e le idee che da essi ne escono non bastassero più a farci conoscere e riconoscere. La ricerca rivela che più le persone sono “comuni”, quindi abitudinarie, socialmente omogenee, più sono tatuate. Perché nel marchio epidermico indelebile ritrovano evidentemente un punto di riferimento. La cosa forse più “sconcertante” – dal punto di vista della solitudine psicologica – è che spesso ci si tatua immagini di alcuna affinità rappresentativa, i simboli più disparati e sconosciuti. Insomma, che non ci azzeccano niente con noi.
Come al solito, beauty will save the world, ma in questo caso culture not Beauty. La cultura, la nostra cultura dovrebbe darci dei conforti più solidi e rassicuranti di una qualche pittura indelebile a caso sul corpo. Ma, come al solito, promuovere e diffondere cultura è sempre il vero cul del sac. La gente non sa dove cercare, cosa cercare, per identificarsi, trovarsi, rassicurarsi. La cultura è tanto potente e assoluta quanto relegata e sprecata.
Fabio Severino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #68
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