L’arte deve ricominciare a cambiare la realtà
Da qualche decennio la working class ha abdicato a favore della borghesia. E questo vale anche per l’arte e la cultura in genere. Con quali conseguenze?
“E comunque, sarebbe anche bello trovare parole nuove ma uno dei problemi giganti che ci sono in circolazione è evidentemente quello del rapporto tra borghesia e cultura, che è imballatissimo e non riesce a fare un bah su niente di quello che gira. Più del 90% dei mondi della cultura in Italia hanno passato la gioventù in posti dove i problemi erano come coordinare le tende con la moquette, come fare i turni nelle seconde case senza sovrapporsi tra parenti, e così via. Poi cosa ti vuoi stupire se il mondo brucia e ci ritroviamo con gente coltissima, studiatissima, intelligentissima che passa tutto il tempo a fare il nazigrammar, a fare pornografia della fragilità e a ragionare sul font delle copertine dei libri. La cultura è uno sport da combattimento, ma per farti venire voglia di fare a mazzate un po’ di milieu ci vuole” (Bertram Niessen su Facebook, 24 ottobre 2022).
Questa nuova serie avrebbe dovuto intitolarsi qualcosa come Potere & potenza dell’artista, perché così avevamo deciso con l’artista Roxy in the Box a fine settembre in piazzetta Mater Dei a Napoli: una serie che, tra le altre cose, affronta la preoccupante uniformità stilistica delle opere realizzate dagli autori delle ultime generazioni, uniformità che però dipende in gran parte dalla manifestazione e rappresentazione per così dire “ufficiale” dell’arte contemporanea, a fronte di una ricchezza e di una diversità di ‘forme di vita’ che esiste nella realtà, ma ancora in maniera piuttosto sotterranea. Poi – mentre stavo concludendo Dove scorre il fiume – Bertram ha pubblicato questo post su Facebook, e quindi Il milieu dell’artista mi sembra molto più azzeccato. Il breve testo fotografa una situazione reale, e a suo modo tragicomica, del mondo artistico e culturale italiano (ma non solo), che è molto probabilmente – anzi: di sicuro – la ragione e la precondizione di quella uniformità.
ARTE E ARTISTI FIGHETTI
Il punto centrale, in fondo, è sempre quello: l’abbandono graduale, nell’arco degli ultimi trenta-quarant’anni, della working class a favore della borghesia, delle classi privilegiate. Questo abbandono è avvenuto non solo a livello politico-economico ma anche (e forse soprattutto) a livello culturale. È infatti l’intero immaginario che è stato riorientato verso valori e istanze che possiamo definire appartenenti al mondo “agiato” – o, meglio ancora, “fighetto”. Come ho scritto nella scorsa puntata, il “fighetto” è in buona sostanza colui o colei che (appartenendo alla classe agiata, privilegiata, dominante), nonostante le apparenze progressiste sue, del suo aspetto esteriore, delle sue dichiarazioni e dei suoi lavori – nel caso sia un/un’artista ‒, non mette mai davvero minimamente in discussione lo status quo, cioè il sistema di valori condivisi appunto dalla propria classe di appartenenza e di riferimento. Il fighetto è dunque intimamente conservatore e reazionario.
La storia dell’arte e degli artisti fighetti è lunga e a suo modo istruttiva, e prima o poi andrà tracciata anche solo sommariamente. Per il momento, credo sia interessante notare come, a fronte di una condizione abbastanza sconsolante come quella attuale, stiamo vedendo proprio negli ultimi anni e mesi in molti territori culturali autori di generazioni passate, emersi cioè tra Anni Settanta e Anni Novanta, che (forti evidentemente di un milieu e di un background di un certo tipo…) sono capaci di affrontare le questioni più scottanti in maniera non retorica né archivistica o archeologica.
IL CASO BRIAN ENO
Così, per esempio, Brian Eno nel suo ultimo album appena pubblicato, FOREVERANDEVERNOMORE, tratta la crisi ambientale e climatica e la prospettiva dell’estinzione di massa, di un futuro umano che quindi si sta restringendo in maniera preoccupante, e lo fa forse per la prima volta in modo emotivo: “FOREVERANDEVERNOMORE is a theory, one you have to admire for its sheer lack of cynicism: By redirecting our emotional impulses toward the planet and away from ourselves, we’ll have a greater chance of reversing the Earth’s environmental trajectory” (Tal Rosenberg, Review, Pitchfork, 18 ottobre 2022).
Eno dichiara, nello statement che accompagna la sua opera: “It took me a long time to embrace the idea that we artists are actually feelings-merchants. Art is where we start to become acquainted with those feelings, where we notice them and learn from them—learn what we like and don’t like—and from there they start to turn into actionable thoughts”. Gli artisti come “mercanti di emozioni”, e l’arte stessa come il luogo in cui le nostre emozioni, una volta articolate all’interno dell’opera e grazie all’opera, iniziano a presentarsi come “pensieri perseguibili”: vale a dire, agibili, in grado di orientare l’azione. Brian Eno – che oggi è uno splendido settantaquattrenne ‒ è sempre stato (anche) un intellettuale molto sofisticato e un maestro nel trasmettere concetti molto complessi con definizioni impeccabili. In questo caso, ci sta dicendo che esiste un modo (forse, più di uno) perché le opere tornino finalmente a cambiare la realtà, cioè la testa delle persone. E che invece un’arte destinata a rimanere chiusa nel suo recinto, per quanto lussuoso ed elegante, è assolutamente inutile – e anche inevitabilmente scadente, fiacca, pomposa.
Infatti, non a caso, FOREVERANDEVERNOMORE è un capolavoro.
Christian Caliandro
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