Arte fighetta: che cos’è e perché non funziona
Profondamente legata all’idea di efficienza e al sistema a cui appartiene, “l’arte fighetta” è qualcosa di inerte già in partenza. A non crederci è il suo stesso autore
L’artista fighetto (e quindi l’arte fighetta) è sganciato dalla realtà – nel senso che non crede assolutamente che la sua opera possa contribuire alla trasformazione in atto. L’artista fighetto è cinico, sembra divertirsi e sghignazzare, oppure ridere sotto i baffi, di tutto, ma in realtà è animato dalla più grande disperazione – che è quella di sentirsi abbastanza inutile, di non poter influire in alcun modo sugli eventi.
L’opera fighetta dunque risulta depotenziata in partenza, perché di fatto non ci crede neanche il suo autore.
La grandezza non si può trovare laddove non è stata cercata, ricercata, fortemente voluta.
La grandezza, cioè, non spunta per caso (e neanche il capolavoro, ovviamente).
L’opera fighetta e l’arte fighetta si tagliano insomma le gambe da sole: nascono inerti, già morte.
Da qui discende la logica conseguenza (e la precondizione) che l’opera fighetta e l’arte fighetta non sono minimamente in grado di contestare – a dispetto delle apparenze e delle dichiarazioni, degli statement – ciò che approvano internamente e incondizionatamente: vale a dire, il sistema di valori che le hanno prodotte, e da cui fuoriescono.
Per contestare un apparato, una struttura, un modo di pensare occorre infatti appartenere già a un altro apparato, a una struttura e a un modo di pensare radicalmente diversi: nuovi.
Solo da questa posizione è possibile criticare e demolire il vecchio (che è ancora presente, e che lo sarà per un bel pezzo).
ARTISTA NON-FIGHETTO E FALLIMENTO
La posizione dell’artista non-fighetto è difficile, certo, perché sospeso tra due mondi e due stati della realtà: ma è anche infinitamente più entusiasmante rispetto a quella dell’artista fighetto (pur nell’assenza di privilegi e benefit), perché alla base c’è un’appartenenza forte e una forma di fede.
Nel mondo dell’efficienza, del risultato, del profitto, del ‘poter fare’ e del ‘pensiero positivo’, non c’è spazio alcuno per deviazioni e digressioni, per l’errore e il fallimento. Tutto è orientato a essere visto, considerato, venduto e consumato immediatamente.
Nel mondo della negatività, invece, che è il mondo della possibilità, dell’apertura, della contemplazione, qualcosa è sempre qualcos’altro, io sono sempre il mondo, e il mondo è me: ogni rigida distinzione perde senso, e questa indistinzione è fondamentale per il pensiero differente e deviante. Che cos’è “opera”? Che cos’è “realtà”? Come facciamo a distinguerle – ma, aspetto più importante, è proprio necessario distinguerle?
“Poiché l’oggetto è sempre un ‘distinto’ nel contesto del reale, la regressione dell’oggetto a cosa comporta una condizione di indistinzione e quindi la regressione dalla nozione distinta di spazio alla nozione indistinta di ambiente. È dunque la fine o la negazione radicale della concezione umanistica, per cui l’arte era distinzione di oggetto e soggetto e definizione della loro relazione ad un tempo spaziale e dialettica.
Con la crisi dell’oggetto, del soggetto e del loro rapporto, dei processi di pensiero e delle operazioni tecniche con cui l’umanità nel corso della sua storia ha continuamente analizzato e definito i rispettivi valori, si chiude il ciclo storico dell’arte. In tutto il tempo che diciamo storico l’arte è stata il modello delle attività con cui il soggetto faceva oggetti e li poneva nel mondo, al mondo stesso assegnando il significato di oggetto e ponendolo così come spazio ordinato, luogo della vita, contenuto della coscienza” (Giulio Carlo Argan, La crisi dell’arte come “scienza europea”, ne L’arte moderna 1770-1970, Sansoni 1970, pp. 676-679).
CONSUMO VS PERDITA
La distinzione fa parte del regno del profitto e del consumo: per vedere e comprare devo infatti sapere esattamente e istantaneamente che cosa sto vendendo e comprando, anche se questo sapere si ottiene al prezzo di una tremenda semplificazione del “cosa” in questione.
Mentre il regno dell’esperienza profonda funziona diversamente: non devo vendere né comprare niente, ma devo conoscere, immergermi e perdermi in questa conoscenza, esplorare.
Il “perdersi” è una delle operazioni più anti-economiche che esistano. Uno dei compiti dell’opera d’arte è quindi spingerci a perderci in essa e nella concatenazione di pensieri e idee che essa genera, fare in modo che – per un attimo, o un po’ più a lungo – la nostra mente sia tutt’uno con… beh, con tutto.
“Il gesso fu nuovamente deposto sopra di lei e Nonnina Aching, che aveva sempre dichiarato che quelle colline ce le aveva nelle ossa, si ritrovò adesso ad avere le ossa nelle colline” (Terry Pratchett, L’intrepida Tiffany e i Piccoli Uomini Liberi, Mondadori 2004, p. 108).
Christian Caliandro
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