La storia dell’arte senza peli sulla lingua: intervista ad Altremuse
Con diecimila follower su Instagram e una redazione sfrontata, il progetto Altremuse racconta l’arte in modo fresco e innovativo, facendo attenzione al rapporto fra storia dell’arte e contemporaneità. Ne abbiamo parlato con la fondatrice
Competenti, giovani e irriverenti al punto giusto: le componenti del progetto Altremuse raccontano la storia dell’arte senza filtri. Tra video psichedelici, musiche techno e grafiche al limite del grime (ovvero a metà fra il pop e il grottesco), Altremuse ha un pubblico di quasi diecimila follower su Instagram, e non accenna a fermarsi. Ma c’è di più: Altremuse è anche una redazione, che pubblica articoli di approfondimento (e di critica sfacciata) sul mondo dell’arte. Prima di immergervi nel loro profilo Instagram, tuttavia, potete iniziare a conoscere le Altremuse leggendo questa intervista alla caporedattrice e fondatrice del progetto, Sofia Schubert.
INTERVISTA AD ALTREMUSE
Quando e come nasce Altremuse?
Tutto ha inizio ad aprile 2020, in piena pandemia: dopo aver completato gli studi in storia dell’arte a Parigi, ero tornata nella mia Brescia per la quarantena. Avendo troppo tempo e troppo poco da fare, decisi di provare a sviluppare un’idea che continuava a ronzarmi in testa. Mi sono confrontata con Edi Guerzoni e Carlo Cosio, da subito entusiasti per il progetto, e abbiamo iniziato a dare forma a quello che poi sarebbe diventato Altremuse. L’idea originaria era quella di parlare di storia dell’arte in maniera nuova, usando il potenziale visivo delle opere come mezzo per poter affrontare una serie di temi di attualità che poi sono anche i temi della nostra generazione: in particolare femminismo, questioni di genere, lavoro, periferia, mondo LGBTQ+, moda.
Qual era il vostro intento?
Volevamo proporre un’idea di storia dell’arte come disciplina sociale che permetta di parlare di storia, antropologia, attualità: insomma, come qualcosa che sia medium comunicativo per affrontare discorsi che vadano al di là della storia dell’arte stessa. Una volta definito il progetto, abbiamo iniziato a coinvolgere altre persone – Clara Pérez Almodóvar, Guido Balzani e Ray Trayen in redazione, Maria Carla Moreschetti per la comunicazione –, formando un team che oggi conta ben quindici componenti, tra chi svolge ruoli più tecnici e amministrativi e chi invece produce contenuti. Chiariti i ruoli, Altremuse era pronto a partire e abbiamo lanciato ufficialmente il progetto a settembre 2020.
Come avete scelto questo nome? Quali pensate che siano le altre muse della nostra contemporaneità?
Trovare il nome, come spesso accade, è stato molto difficile. La prima ispirazione è stata quella del mondo classico e l’obiettivo era trovare un nome che desse l’idea di un’arte e di una critica parallele, sviluppatesi a lato di quelle istituzionali e sempre rimaste nell’ombra. Altremuse significa questo: abbracciare il lato anticonvenzionale delle cose (nel nostro caso, dell’arte) per provare a dare un senso alla realtà che ci circonda. Crediamo che fra le Altre Muse della nostra contemporaneità ci siano sicuramente le critiche d’arte Angela Vettese e Lea Vergine, l’eclettica artista musicale M¥SS KETA, la modella Benedetta Barzini e Diletta Bellotti (scrittrice e attivista impegnata nella lotta contro le agromafie), ma anche la giornalista Cecilia Sala e persino un personaggio immaginario: Hermione Granger, giovane strega della saga di Harry Potter.
L’IDENTITÀ GRAFICA E LA COMUNICAZIONE DI ALTREMUSE
Si sa, anche l’occhio vuole la sua parte. Possiamo dire che la qualità grafica e visiva dei vostri contenuti è uno dei vostri punti di forza?
Abbiamo lavorato molto nelle prime fasi del progetto per definire un’identità chiara. Intendevamo riferirci a un’estetica molto Anni Novanta: c’è anche, lo ammetto, uno sguardo alle Destiny’s Child, con la loro idea di un gruppo femminile che condivide un messaggio, ciascuna con la sua precisa personalità. Il team grafico e registico (con Valeria Accurso, Elisa Chiari e Francesca Trovato) ha poi determinato l’aspetto visivo della pagina e dei video, mentre Mathieu Narduzzi ha realizzato la sigla, ragionando sui concetti di trasformazione e fluidità, da sempre due dei principi chiave di Altremuse. Alla base del progetto c’era l’idea di mantenere un livello di qualità molto alto e portarlo sui social: i contenuti sono realizzati da persone tecnicamente preparate che utilizzano attrezzature professionali, cosa non scontata per un progetto pensato per i social network, soprattutto nell’ambito della divulgazione artistica.
Come agite concretamente?
Nella produzione cerchiamo sempre un equilibrio fra la serietà del contenuto e la sperimentazione di nuovi linguaggi che ne permettano una veicolazione più immediata. Rendere glam tematiche che generalmente sono narrate in modo diverso è una sfida che riteniamo di aver vinto. Anche l’utilizzo di diversi format – tra cui quello delle interviste per strada – è volto alla ricerca di un approccio che coinvolga pubblici differenti pur rispettando il contenuto artistico. Una delle specificità della nostra attività sui social è poi quella di doversi scontrare con una serie di modelli e stereotipi sulla divulgazione – da Piero Angela a Philippe Daverio – che però rientrano in una dimensione più frontale e didattica rispetto all’obiettivo di Altremuse, ovvero presentare la storia dell’arte come un’occasione di risignificazione, di riflessione e di nuove associazioni con il contemporaneo.
Il sistema dell’arte contemporanea è generalmente considerato elitario e poco aperto nei confronti dei “non addetti ai lavori”: quale pensate sia la strada per una comunicazione più vicina al pubblico?
Io penso che non sia un problema solamente dell’arte contemporanea, ma più del mondo dell’arte e della cultura in generale. In Italia c’è la concezione che “io capisco ma non condivido fino in fondo”, dei musei e delle istituzioni culturali come qualcosa che deve occuparsi soprattutto di preservare il patrimonio. Nel momento in cui l’opera d’arte viene presentata come intoccabile e bisognosa di conservazione, appare come qualcosa di estremamente aulico, e dunque distaccato dalla realtà e dal suo pubblico. In questo, la concezione italiana del museo come “tempio” si differenzia da quella anglosassone del museo come “agorà”, come luogo di ritrovo e partecipazione ad attività pensate per avvicinare il contenuto del museo alle persone. Puntare su attività di mediazione, didattica e presentazione delle opere come qualcosa che ancora ci può parlare permette di scardinare questa convinzione. Allo stesso modo, l’avvicinamento del pubblico all’arte contemporanea non deve partire dalla presupposizione che essa vada capita: ci sono diversi livelli di comprensione, che vanno dalla pura percezione estetica ed emotiva fino alla cognizione profonda dell’opera, magari con l’accompagnamento di un testo o di una persona esperta.
Quali sono le istituzioni italiane che secondo voi adottano questo approccio?
Alcune istituzioni italiane che, a nostro avviso, stanno operando bene in questa direzione sono la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e Fondazione Prada, che, nonostante la sua affiliazione al mondo della moda possa farla apparire maggiormente esclusiva, lavora molto su una comunicazione più aperta. Penso anche a musei come le Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Pinacoteca di Brera, che sta puntando in particolar modo sulla didattica.
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Ho letto il vostro report sulla settimana dell’arte di Torino: non pensate di essere state cattivissime?
Non credo; siamo state cattive ma con ironia, per fare quello che ci piace: tentare di decostruire i miti del mondo dell’arte, facendo vedere come esso sia un sistema con precise regole interne ed esterne. L’importante è saper fare autoironia: tutti i componenti della redazione lavorano nel mondo dell’arte e secondo me è molto divertente confrontarsi sulle criticità del sistema. È da poco uscita la recensione sulla Biennale di Venezia, e forse siamo state ancora più cattive.
La critica d’arte sembra aver perso un po’ della sua dirompenza: quale pensate sia il motivo?
Forse è vero che oggi la critica si è appiattita o forse certi paradigmi si sono talmente radicati che ormai sono dati per scontati. Dopotutto, da quanto ho potuto constatare durante i miei anni universitari, in molti casi la critica non si insegna praticamente più. L’insegnamento della storia dell’arte a livello accademico è molto nozionistico, non c’è una proposta di pensiero critico o di contestualizzazione. Si sente la carenza dell’integrazione di tematiche trattate in altri sistemi didattici – ad esempio, tutti quei casi di studi postcoloniali, molto presenti in ambito anglosassone. Altremuse cerca di fare anche questo: riempire quel gap fra l’insegnamento della storia dell’arte e la dimensione contemporanea.
IL FUTURO DI ALTREMUSE
Quali sono i prossimi progetti di Altremuse? Cosa pensate (o sperate) vi riservi il futuro?
Stiamo cercando di adottare progressivamente uno sguardo anche sull’offline. Per adesso stiamo lavorando a una collaborazione con un museo abbastanza importante (di cui non possiamo ancora rivelare il nome). Ci è stato proposto di creare una programmazione culturale ed è un progetto a cui teniamo molto: essere la mente dietro alla parte del museo che più è orientata verso il pubblico era uno dei nostri maggiori obiettivi. Un altro progetto a cui stiamo pensando è una rivista cartacea, forse in edizione semestrale, per dare forma fisica agli articoli che per ora pubblichiamo solo online. In realtà pensavamo anche di fare una festa (o una serie di feste) nei prossimi mesi: sarebbe una bella occasione per riunire i membri del team sparsi in tutta Italia e per incontrare dal vivo i nostri follower, ringraziandoli del supporto ricevuto negli scorsi due anni.
Alberto Villa
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