Storia, pregi e difetti del Museo Macro di Roma che compie 20 anni
In corso dell’evento di celebrazione dei 20 anni del Macro erano presenti tutti i direttori del museo dalla sua nascita. Ripercorriamo il percorso, non senza qualche momento critico, dell’istituzione da qui ad oggi
l 10 e 11 dicembre scorso il Museo Macro di via Nizza a Roma ha chiamato a raccolta artisti e curatori, galleristi e editori, addetti ai lavori di ogni genere e natura per celebrare i suoi primi vent’anni di vita. Ora, ad aprire le celebrazioni del ventennale di un pubblico museo in qualsiasi altra nazione europea sarebbe stata una figura pubblica: se non il sindaco, almeno un assessore. Non qui, non a Roma. Nessuno lo ha visto l’assessore alla cultura Miguel Gotor e neanche un suo sostituto a coprire in parte la colpevole indifferenza. Quindi non è esatto come ha scritto “Repubblica” a commento dei 20 anni di vita del Macro, che quella del museo romano d’arte contemporanea è “un’avventura a metà” e in fondo non è neanche così vero che non ha fatto breccia nel cuore dei romani se (sempre stando alle cifre fornite dallo stesso quotidiano) conta 9.000 visitatori al mese dunque 108mila l’anno. Dato più che dignitoso se si considera ad esempio che la Galleria Nazionale d’Arte Moderna forte di una collezione importante nel 2019 (in tempi precedenti al Covid) ne ha contati 190mila (dati MiC).
LA STORIA DEL MACRO
Quella del Macro in realtà più che un’avventura è una storia esemplare di malagestione politica, molto italiana, molto romana…
Una storia iniziata 20 anni fa con grandi aspettative in quell’epoca veltroniana in cui si immaginava di fare di Roma la capitale del contemporaneo grazie alla costruzione di nuovi musei, al sorgere dell’Auditorium, case della musica o dell’architettura, festival o feste del cinema, notti bianche e l’arrivo dei grandi architetti Renzo Piano, Zaha Hadid, Odile Decq, Richard Meyer. Il Macro ne sarebbe stato il museo comunale eccellente, il polo contemporaneo della nuova capitale dal volto europeo come il MAXXI quello di una nazione dal volto internazionale.
Roma come a Londra, Parigi, Berlino…
Sabato scorso in nome di tanto compleanno li abbiamo visti riuniti per la prima volta tutti i direttori ognuno disposto a raccontare un pezzetto della travagliata storia di questo museo. In ordine di apparizioni ecco Danilo Eccher, Luca Massimo Barbero, Bartolomeo Pietromarchi, Giovanna Alberta Campitelli, Giorgio de Finis e naturalmente Luca Lo Pinto attualmente in carica, nonché autore di questa iniziativa. Tutte figure riconosciute dalle specchiate carriere, ognuno con una storia diversa, un’immagine diversa di museo, una sua visione, una sua coerenza, un suo ragionamento. Anche de Finis, che con il suo MacroAsilo paragonato più a un centro sociale che a un polo dell’arte contemporanea aveva suscitato perplessità e polemiche tra gli addetti lavori, non si può negare che stesse esprimendo una sua precisa idea di museo. Chi non l’ha avuta invece è stata la controparte politica e istituzionale.
LA NASCITA DEL MACRO E I DIRETTORI
Dai racconti dei direttori si evince che il Macro nasce per volontà del sindaco ( Veltroni appunto) e come sua diretta emanazione con l’intento presto di trasformarsi in una fondazione dalla autonomia amministrativa per dialogare con sponsor generosi che erano disposti a sostenerlo: l’Enel in primis poi Deutsche Bank e infine il gruppo dei “MacroAmici” fondato da collezionisti, mecenati ma aperto a tutti gli appassionati e addetti ai lavori che davano il loro contributo attraverso quote sociali.
Non succederà mai. Succede invece che essendo una diretta emanazione del sindaco comincia a vedere al suo vertice un nuovo direttore ad ogni cambio di giunta. E i cambi sono veloci così come la durata degli incarichi. Solo Danilo Eccher riesce ad avere otto anni di mandato. Luca Massimo Barbero solo 2 e mezzo; Bartolomeo Pietromarchi 3 anni; pochi mesi ad Alberta Campitelli funzionario chiamato a regnare in un intermezzo, poi con la giunta Cinque Stelle arriva De Finis e infine Luca Lo Pinto.
Del resto, orfano della fondazione promessa, il Macro comincia a navigare a vista fra varie e diverse identità: da ufficio comunale diventa un “ufficio di scopo” (e fin qui perlomeno gode di una sua autonomia) ma durante la giunta presieduta da Ignazio Marino viene riportato sotto l’egida della sovrintendenza capitolina finché nel 2018 è accorpato dell’Azienda Speciale Palaexpo che lo prende in gestione.
Chiaramente in questa incertezza e mancanza di identità perde tutti i suoi sponsor. L’Enel soprattutto che (con la sua sede a pochi metri dal museo) avrebbe dovuto essere il suo partner di eccellenza tanto da meritare la più grande sala del museo (battezzata al tempo Sala Enel), annuncia con un contributo di 1,8 milioni di euro in tre anni nel 2015 il suo trasloco come socio al MAXXI che presieduto da Giovanna Melandri è diventato – lui sì – fondazione con la benedizione del ministro Franceschini. Ma anche i MacroAmici si disamorano col risultato che alcuni tra i fondatori decidono di mettersi in proprio inaugurando associazioni, produzioni o fondazioni private (“In Between Art Film” di Beatrice Bulgari, “Nomas” di Raffaella e Stefano Sciarretta, “Fondazione Giuliani” di Giovanni Giuliani).
IL MACRO E IL COMUNE DI ROMA
Eppure con pochi soldi pubblici, senza identità precisa, privato anche della sua collezione e dopo un periodo di chiusura fisica il Macro ancora resiste con un programma che nelle mani dell’ultima direzione è tornato ad avere un profilo sperimentale e internazionale. Così a giudicare da questo prenatalizio weekend di incontri e discussioni che ha visto alternarsi associazioni, artisti, istituzioni, riviste e gallerie in una maratona a prova fisica degli astanti senza neanche pausa pranzo, sembrerebbe ancora radicato nel cuore dei romani. O perlomeno di quelli che di arte si occupano.
Non il Comune di Roma però. Genitore assente, parecchio ingiustificato. Se non altro perché questo museo è costato molto sia in termini di denaro pubblico che di aspettative da parte di chi con l’arte vive, chi la produce, chi la sostiene. Dunque non resta che dare testimonianza che a festeggiare questi primi vent’anni al Macro la città c’era. La presenza (e quel che è peggio la visione) politica, per l’ennesima volta, invece mancava.
Alessandra Mammì
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