La Pittura che sopravvive nella catena alimentare dei linguaggi. L’analisi di Alfonso Leto
La pittura è un’attitudine umana che ha attraversato la Storia, e nessun tentativo di ostacolarla ha finora funzionato. Ma come si preserva dalla competizione con le manifestazioni espressive più avanzate? Parola ad Alfonso Leto
Tutta la Storia della cultura e dei linguaggi comunicativi umani è attraversata dai conflitti tra il potere e la produzione visiva degli artisti. Le lotte tra iconoclastia e figurazione, nel mondo bizantino, i secolari conflitti sulle modalità di rappresentazione del corpo umano, le implicazioni religiose e poi quelle politiche, dalla Controriforma alla rivoluzione russa, dal cristianesimo iconico all’Islam aniconico, fino all’oggi in cui l’intelligenza naturale viene palesemente attaccata da quella artificiale. Secoli e secoli di dissidi per occuparsi di cosa, in fondo? Di pittura e suoi derivati: attitudine umana che, evidentemente, non è così ininfluente come la si pensa.
All’origine della persistenza della pittura
Nel tempo presente, ben oltre la condizione postmoderna, esplorare o semplicemente riflettere sullo stato della pittura equivale – schematizzando – a misurare e comprendere il perpetuo rapporto tra la creatività umana (dal concetto alla prassi) e quella “tecnologicamente assistita”. Una secolar tenzone che perviene ai nostri giorni con la stessa estenuata consapevolezza con la quale Nosferatu (il Principe della notte) spiega alla bella Lucy quanto sia noioso “vivere nei secoli sperimentando ogni giorno sempre le stesse futili cose”. Si, perché, a lungo andare, questi tentativi storici di sopprimere o sopraffare l’umanità del gesto pittorico, si sono rivelati e si rivelano ancora noiosi e futili, oltre che infruttuosi. Nessuno di questi conflitti, fino all’oggi, è bastato a scalciare la pittura nel residuo della catena alimentare dei linguaggi culturali, e ciò grazie all’intelligenza di artisti “non omologati” (per evocare un concetto di Luigi Presicce, nel suo precedente intervento in questa rubrica) che hanno saputo alimentare, ciascuno per conto proprio, una tecnica antica come la pittura, senza renderla estranea alla stratigrafia culturale della memoria, né subalterna alla dominanza superficiale della tecnologica, bensì consapevoli che l’esercizio della fantasia è – come diceva Novalis – “il massimo bene”.
Si badi: non è affatto, banalmente, un match anacronistico tra tradizione e innovazione in cui la pittura viene condannata a spazzare il pavimento dell’arte contemporanea. Tutt’altro. Nell’ecosistema degli strumenti e dei mezzi espressivi dell’arte di oggi, in cui anche il linguaggio è permeato dalle ansie della tecnologia, accade un fatto curioso di portata mondiale: la persistenza inattesa di una pittura che muove strumenti tradizionali dentro tracciati iconografici apparentemente non in grado di competere con i tempi e l’efficacia della produttività più avanzata, più progressiva, più “in sella” al tempo presente.
Pittori agnostici contro il fideismo dell’arte
Nella mia storia personale, negli Anni Novanta, scrissi e diffusi un “volantino degli artisti miscredenti” ancora attuale, in cui si avvertiva già la necessità di indicare quali anticorpi il pittore deve assumere per corazzarsi contro la sparizione. Ravvisavo proprio in un atteggiamento “non fideistico” queste difese, esprimendomi più o meno in questi termini: l’artista-pittore, al cospetto dell’artista tecnologico (tecnosensibile), in teoria adopera un linguaggio in ribasso, tendente verso l’estinzione della specie, o forse è meglio dire, in termini più merceologici, “della specialità”. Ciò è vero o inevitabile solo quando la specialità pittorica in questione non ha ancora emotivamente superato il guado postmoderno e ha conservato con l’arte un rapporto di fede che l’arte del tempo presente non è in grado di ricambiare, perché da questa nicchia estetica residuale non trae alcuna sostanza.
Vi è, invece nel mondo contemporaneo, un’altra modalità espressiva indipendente: si tratta di una pittura animata da un profondo agnosticismo estetico nei confronti dell’Arte, un atteggiamento non fideistico che la preserva dalle umiliazioni di una competizione con le più avanzate manifestazioni espressive, quelle che si sono legate alla tecnologia dei materiali e degli strumenti del pensiero estetico.
Questi pittori, che sono capaci di porsi oltre la resistenza autolesionistica di linguaggi anteriori contro quelli di nuovo uso, facendo professione di ateismo estetico, nel loro non credere sospendono la ricerca ottimistica di valori nuovi, essendo il loro ateismo un non-valore perpetuo.
La pittura contro il deserto che avanza
Questi pittori miscredenti catturano i pensieri del Tempo presente, come prede, per farne cibo concettuale e trasformarlo in escremento creativo (concime contro il deserto che avanza).
Il pittore che fa esercizio di ateismo estetico è un predatore-spazzino nella zoologia creativa contemporanea: un anello insopprimibile della catena linguistica.
Sotto la pelle della sua pittura arde la naturalezza atavica del suo sguardo.
Egli si trova già oltre il guado postmoderno e post-umano. Preconizza ed esorcizza, per voi tutti, il clima gelido del blackout tecnologico: in fondo egli è il solo sul quale domani potrete contare per accendere il fuoco (un’immagine ardente) con le sole mani.
Alfonso Leto
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