L’eredità dell’artista Luca Maria Patella. Il ricordo di Alberto Fiz
Multidisciplinare, psicoanalitico, il percorso di Luca Maria Patella è ancora tutto da analizzare e riscoprire. Tra grafica, fotografia, video, scrittura, poesia, performance, installazioni
Luca Maria Patella è un artista che non ha mai accettato le lusinghe del conformismo perbenista. Lui aveva scelto di lasciarsi guidare da una ricerca che non ammette di essere incasellata, che sfugge a qualunque definizione ed evita di sottostare a un formulario precostituito.
L’arte di Patella tra Duchamp e la psicoanalisi
Patella, insomma, non stava ai patti: all’inizio degli anni ottanta, per esempio, i suoi Vasa Physio-nomica, vasi-ritratto torniti su profili di personaggi storici o viventi avrebbero potuto diventare un marchio di fabbrica accolto con entusiasmo dal mercato. Sono lavori esemplari dove le immagini si scoprono nel vuoto proprio là dove cadono le ombre. Un punto d’arrivo per molti artisti. Ma non per Patella che non intendeva affatto lasciarsi imbrigliare dalle sue stesse creazioni. Nel 1984, infatti, al termine di una lunga gestazione, sposta la direzione della freccia e pubblica Jacques Le fataliste come Autoencyclopédie (di libri ne ha inventati oltre 70), tra i più autorevoli saggi psicoanalitici su Denis Diderot che con questo romanzo rivela se stesso dopo che lo sfiancante lavoro sull’Encyclopédie lo aveva prosciugato.
È Patella il suo analista, così come avviene per Duchamp, ma attenzione alle letture lineari: i ruoli del terapeuta e del paziente si possono all’improvviso scambiare.
Quando si analizza il corpus patelliano, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a MUT/TUM, un lavoro realizzato nel 1985 dove si assiste a un rovesciamento della scritta che compare in calce all’orinatoio di Marcel Duchamp e nella sua ultima opera dipinta intitolata TU m’. Difficile stabilire quale strada prendere nell’ambito di un’indagine funambolica e poliedrica.
Comunque vada, si finisce sempre per compiere un Viaggio in Luca, come recita il titolo di un suo volume scritto nel 1974.
La multidisciplinarietà dell’opera di Patella
“Non voglio essere relegato nemmeno nello specifico dell’arte”, paradigma Patella che si sgancia da qualunque formalizzazione oggettuale preferendo arrampicarsi tra vicoli e sentieri, piuttosto che percorrere, a gran velocità, la sin troppo banale strada maestra. Lui ha lavorato per gemmazioni rintracciando in ogni dove il centro con una coerenza di pensiero che consente un progressivo allargamento dei significati. Il problema fondamentale non è il prodotto prêt-à-porter, ma risolvere l’enigma dell’opera e giustificarne la permanenza portandola sino al limite estremo, persino paranoico, di unicità e perfezione. Grafica, fotografia, video, scrittura, poesia, performance, installazioni, sono solo alcuni degli ambiti di ricerca intorno ai quali si è espresso Patella, convenzionalmente descritto come artista totale e multidisciplinare. Ma più che totale, lui è sempre stato parziale in quanto ogni esperienza è lenticolare, minuziosa, esauriente, circostanziata e non c’è nulla di onnicomprensivo né, tanto meno, di globalizzato. Scienza, psicoanalisi, pragmatica e semiologia, sono alcuni degli impasti che l’artista romano, di volta in volta, utilizza seguendo un delirio autonomo e libero da condizionamenti, sebbene i suoi lavori siano spesso anticipatori di linee o tendenze, dal concettuale alla ripresa del classico con i suoi tempietti (tempus, templum…) al limite del kitsch che si possono annoverare tra gli objets recherchés più che tra gli objets trouvés.
Patella ha riconquistato significati assopiti, celati o, molto spesso, rimossi.
A tal proposito, appare emblematico Id e Azione, un intervento del 1976 dove all’autoritarismo del linguaggio politico (la falce e il martello), si contrappone l’unione tra l’azione collettiva e l’istanza intrapsichica necessarie per giungere ad un’ideazione autentica, non più prevedibile o già incancrenita.
La collaborazione con Pino Pascali: SKMP2
Le sue opere hanno saputo andare incontro a una rinnovata consapevolezza proprio per la loro capacità di slittare su più piani in un’ambiguità dove pulsione e pensiero convivono senza mai elidersi. Come scandisce la voce fuori campo in SKMP2, il film del 1968 nel quale compaiono Sargentini, Kounellis, Mattiacci, Pascali, oltre a Patella, “l’arte è ricerca scientifica-fantastica dell’azione psicologica.”
Patella ha sempre sfidato l’osservatore che, il più delle volte, soccombe: tutto ciò che sa o che presume di sapere, gli si è ritorto contro da parte di un artista irriguardoso, pronto ad avventarsi, come un giustiziere, sui luoghi comuni o su chi grida al miracolo di fronte all’ovvio e applaude all’ottuso.
Sin dal 1964, nelle sue opere multimediali, tra cui gli Ambienti proiettivi animati, in anticipo rispetto all’arte concettuale e comportamentale, Patella ha sviluppa una sperimentazione linguistica che investe ogni aspetto della produzione, dai viraggi fotografici di carattere psicoanalitico in un contesto realista, alla performance, sino all’uso della parola intesa come detonatore di nuovi significati. Nel 1971 i suoi Alberi Parlanti e profumati, tra i primi esempi di installazione interattiva, discettano in lingue diverse di poesia e di filosofia, così come di argomenti scientifici o di bagatelle. Per sentirli, è sufficiente appoggiare l’orecchio al tronco e sintonizzarsi sul colore che si desidera, rosso, verde o giallo. La natura, insomma, quando vuole, si fa ascoltare.
Il codice variabile dell’arte di Patella
Se l’arte, spesso, chiede regolamenti e chiavi d’interpretazione univoci, Patella ha un codice variabile che l’osservatore deve, in ogni circostanza, decriptare. Del resto, i suoi occultamenti hanno lo scopo di azionare differenti parametri della conoscenza non fermandosi allo sguardo: “Se l’arte dovesse limitarsi alla percezione ne saprebbero di più le zanzare o le api”, ha affermato Patella.
Il suo è sempre stato uno zigzagare tra diversi procedimenti dove parole e immagini si scambiano di posto e giocano a scacchi con l’ignaro spettatore. In Dice A del 1966, per esempio, il ritratto fotografico visto di profilo di Rosa Foschi (è stata la moglie dell’artista, nonché la sua musa) sembra soffiare via la lettera A, quasi fosse una bolla di sapone. Ma tra un’autofoto oggettiva (è un selfie con viraggi ante litteram) e una complessa-riflessiva, compare nel 1966 un angolo asfaltato con la dicitura Contro la razionalizzazione nevrotico adolescente. Districare la tela di Penelope-Patella è pressoché impossibile in quanto ha sempre evitato d’impostare un unico stratagemma visivo pronto ad annodare i fili per poi snodarli quando meno te l’aspetti. Nel 1967, tuttavia, è il lavoro cinematografico Terre Animate già iniziato nel 1965 con la realizzazione delle tele fotografiche ad anticipare la nascente land art, tanto che proprio di recente la critica statunitense l’ha definito un lavoro chiave del movimento. Ma anche in questo caso l’aspetto premonitore non è scevro da elementi di devianza: se gli artisti americani lasciano la loro impronta sul paesaggio, quasi fosse un immenso supporto naturale, Patella teatralizza il suo intervento, lo rende performativo, immateriale e ironico con tre “personaggi indicativi” che misurano la terra con una fettuccia bianca in base a un’operazione di carattere comporta-mentale che rimanda, per certi versi, alle Linee di lunghezza infinita di Piero Manzoni. In entrambi i casi gli artisti occultano il dato sensibile dell’arte mediante un’operazione immaginifica e paradossale. Ma tutta l’opera di Patella passa attraverso il tempo scombinando ogni logica rispetto a una contemporaneità che si crogiola intorno a vere o presunte innovazioni, incapace di sorprendere e di sorprendersi. Insomma, la riscoperta del suo lavoro così complesso, misterioso e intrigante, è solo agli inizi.
Alberto Fiz
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