I dimenticati dell’arte. Luigi di Ruscio, il poeta operaio che piaceva a Quasimodo
Un talento per la poesia coltivato esercitando ogni giorno la scrittura, al ritorno dalla fabbrica norvegese dove trovò lavoro nel dopoguerra. La singolare storia di un “uomo d’avanguardia”
“Sino a che posso scrivere io vivrò. Scriverei anche se fossi capitato in un pianeta completamente abbandonato senza nessuna possibilità di far giungere a qualcuno la scrittura, e bisognerebbe scrivere come se uno si trovasse in una solitudine assoluta. Bisognerebbe scrivere di tutto quello che vedo come se lo vedessi per l’ultima volta”. Così scriveva Luigi di Ruscio (Fermo, 1930 – Oslo, 2011), il poeta operaio, scrittore irregolare e personaggio fuori dagli schemi, definito da Salvatore Quasimodo “uomo d’avanguardia”, capace di coltivare la poesia da semplice manovale.
Chi era Luigi di Ruscio, il poeta operaio
Luigi era nato da una famiglia umile: alle scuole elementari era irrequieto e poco interessato allo studio, tanto che non riuscì a superare la quinta elementare, prima di mettersi a fare mille lavori diversi, senza nascondere le sue simpatie comuniste ed anarchiche. L’amore per la letteratura lo coltivò da autodidatta, leggendo i classici americani e russi, la filosofia greca, le saghe nordiche e i testi di Benedetto Croce. Nel 1953 pubblicò la sua prima raccolta di poesie con Schwarz, Non possiamo abituarci a morire, con una prefazione di Franco Fortini, che definì i versi del giovane autore “un documento umano delle aree depresse”; tra i primi estimatori di Luigi va annoverato Salvatore Quasimodo, che gli assegnò il premio Unità.
Quattro anni dopo, si trasferì in Norvegia ad Oslo, dove trovò lavoro come operaio in una fabbrica metallurgica, senza mai smettere la sua produzione poetica e letteraria. Ogni giorno alla fine del turno di lavoro ritornava a casa dalla moglie norvegese Mary Sandberg, che gli aveva dato quattro figli, e si metteva a scrivere sulla sua Olivetti. “Dove è il sottoscritto è anche tutta la nostra italianitudine. L’anima mia riempita dall’universo linguistico m’insegue caparbia”: sono versi scritti in una lingua che non veniva parlata in casa, come nessuno al lavoro era a conoscenza della attività letteraria di Luigi, che si intensificò negli anni, affiancata da collaborazioni con riviste e giornali come Momenti, Il Contemporaneo, Realismo lirico, Ombre rosse, Alfabeta, il manifesto e Azimuth.
La scrittura dinamica di Luigi di Ruscio
Di Ruscio pubblicò non solo poesie, ma anche prose di grande intensità, spesso con connotazioni autobiografiche, come Palmiro (1986), L’Allucinazione (2008), Cristi polverizzati (2009), La neve nera di Oslo (2010). Era una figura fuori dagli schemi, che si esprimeva attraverso una scrittura dinamica, libera ed essenziale. Come ha scritto Massimo Raffaeli: “Sospetta gli aggettivi e vive più che altro di nomi e di verbi, il suo centro è la frase di senso compiuto o, meglio ancora, la connessione di frasi coordinate all’interno di un periodo. Ciò probabilmente vuol dire che, per il poeta, il pensare contiene l’esprimere e che la poesia o è pensiero in atto o non è”. Di recente la sua figura è stata oggetto di una rivalutazione critica: nel 2014 è uscita per Feltrinelli Romanzi, un’antologia degli scritti di Luigi di Ruscio curata da Andrea Cortellessa e Angelo Ferracuti, mentre nel 2019 Marcos y Marcos ha pubblicato Poesie scelte (1953-2010), a cura di Massimo Gezzi.
Ludovico Pratesi
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