Che cosa è il “contenuto” in ambito artistico? E il “contenitore”?
Come funziona un oggetto culturale oggi? Fino a pochi anni fa la parola “contenuto” in ambito artistico e culturale non esisteva. Oggi la fa da padrone in analogia con il concetto di contenitore
Oppenheimer qualche altra domanda ci aiuta a porcela.
Per esempio: come è fatto, come ‘funziona’ un oggetto culturale di successo oggi? (Di successo qui vuol dire un film che è in grado di scatenare una discussione globale, di influenzare quindi in qualche misura l’immaginario collettivo. E certamente, prima di questa estate era parecchio tempo di sicuro che tante persone contemporaneamente non pensavano alla bomba atomica, al Progetto Manhattan, a Los Alamos e a come la conclusione della Seconda Guerra Mondiale ha significato la nascita di un nuovo mondo, che è in buona parte è quello in cui viviamo ancora oggi.)
La storia del film Oppenheimer
Tanto per dire, Oppenheimer è il primo film che Christopher Nolan realizza con la Universal, dopo essersene andato sbattendo la porta dalla Warner Bros., per come lo studio ha iniziato a trattare i film e le loro uscite, soprattutto in relazione alla gestione del rapporto tra sala e streaming. Inoltre, Oppenheimer esce nel periodo dello sciopero degli sceneggiatori e degli attori statunitensi contro i produttori. In qualche misura, queste lotte e questi conflitti ruotano comunque sempre attorno al concetto di “contenuto” che molto velocemente nell’ultimo decennio ha prima insidiato e poi di fatto sostituito quello di opera.
Opera vs Contenuto
Che cosa è infatti il contenuto, in ambito artistico e culturale?
Se ci pensiamo, fino a pochi anni fa questo termine praticamente non esisteva. Il contenuto è in funzione innanzitutto – e in via assolutamente prioritaria – del contenitore a cui si riferisce, e al quale è destinato. Dunque, la piattaforma nel caso del cinema; o, allargando il discorso all’arte contemporanea, potremmo dire la mostra/fiera/evento.
Il contenitore è del tutto indifferente al contenuto e ai contenuti che vengono inseriti al suo interno: la prova è che lo spazio dedicato a ognuno è esattamente identico a quello di tutti gli altri (sempre nel caso della piattaforma, i rettangolini delle locandine). Questa indifferenza del contenitore, se ci pensiamo bene, si spinge anche un po’ oltre rispetto a questo punto: vale a dire, al contenitore interessa innanzitutto che noi spettatori passiamo un bel po’ di tempo lì sopra (e questo potrebbe cominciare a dirci qualcosa rispetto alla durata dei film attuali: perché infatti da qualche anno devono essere minimo di due ore, spesso di due e mezzo, a volte come in questo caso di tre?), e questo interesse va necessariamente, da un certo punto in poi, a discapito di un nostro interesse più profondo… Mi spiego meglio: al contenitore, così come è progettato, la qualità dei contenuti quasi non importa.
La qualità dei film e le piattaforme
Questo ovviamente non vuol dire che buoni film, bei film, anche capolavori non possano finire sulle piattaforme, addirittura essere prodotti da esse, ma significa che non è l’obiettivo principale. L’obiettivo principale è e resta la conquista del nostro tempo.
Questo è per Nolan chiaramente il nemico contro cui combatte, da strenuo difensore della visione in sala; ma ciò non impedisce al fenomeno di intaccare e trasformare dall’interno anche il suo cinema.
In un contesto del genere, infatti (e il discorso, ripeto, vale con minime variazioni anche per gli altri territori artistici), diventa sempre più difficile coltivare la natura sperimentale delle opere. Perché tra opera e contenuto permane comunque una relazione oppositiva, ed essi si contraddicono a vicenda.
Diventa quindi difficile realizzare film indefinibili, inafferrabili: basta considerare al destino di due film recenti, e molto diversi tra loro, come Blonde di Andrew Dominik e Bardo di Alejandro Gonzàlez Iñàrritu. Oppure, in tema di (mancato) sconfinamento, basta paragonare il cinema recente di Nolan a quello di un autore rispetto a lui al tempo stesso lontano e vicino, vale a dire Terrence Malick.
Oppenheimer, l’iper-contenuto
Ciò che voglio dire è che, in fondo, a dispetto – o forse proprio a causa – di tutte le lotte che Nolan ingaggia con i limiti e i paletti del sistema produttivo e distributivo contemporaneo, Oppenheimer si presenta come il contenuto perfetto e perfettamente impacchettato, una sorta di iper-contenuto, per così dire: e il contenuto deve, per definizione, essere definito e comunicato e digerito non tanto e non solo in termini di genere (biopic), ma proprio a livello di linguaggio e di stile.
C’è una zona dell’opera – quella toccata meravigliosamente da Interstellar, e in maniera un po’ più sgraziata da Tenet – che il contenuto nella sua ultima evoluzione e definizione, pur nella propria efficienza stellare (e in effetti a causa di questa efficienza), non riesce semplicemente ad attingere.
Christian Caliandro
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati