Il problema della ricerca in ambito artistico. Ancora sul caso delle AFAM in Italia
Mentre all’estero artisti possono ambire a intraprendere un dottorato di ricerca, nel nostro Paese questo non è ancora possibile, tranne che in alcuni casi e in partnership con le università. Ecco perché sarebbe invece importante dare anche ai creativi questa possibilità
La recente intervista apparsa sul magazine Artribune il 21 luglio 2023 di Alberto Villa a Guido Tattoni, dean della NABA (Nuova Accademia di Belle Arti con sedi a Milano e Roma) mette a fuoco un tema irrisolto molto importante per l’Italia. Il direttore, infatti, annuncia il lancio di un dottorato di ricerca per artisti che nei fatti in Italia non è possibile per una perdurante concezione del percorso artistico separato da quello teorico, universitario. La NABA soltanto attraverso la collaborazione con un’università non italiana di Göteborg in Svezia riesce di fatto a superare l’inerzia ministeriale, offrendo ai propri studenti un dottorato nell’ambito delle arti visive fondato sulla practice based research. Riflettere sulla pratica artistica per un artista sembrerebbe dunque vietato se non all’interno di un percorso di studi non artistici ma storico-artistici e di estetica. Complimenti dunque al direttore Tattoni e alla lungimiranza del suo istituto.
Dottorati e AFAM
Potrebbe essere interessante, a mio parere, aprire una discussione sull’urgenza di una nuova e diversa definizione della ricerca e della produzione artistica nel XXI secolo e sull’importanza strategica che potrebbe rivestire tale prospettiva, non soltanto per gli stessi artisti, ma anche per le politiche culturali e le sue applicazioni di cui pochi sembrano volersi occupare.
Artisti, curatori, performer e designer sono sempre più impegnati in ricerche e pratiche creative che sconfinano oltre i limiti tradizionali delle arti visive: la scultura, la pittura e le arti decorative. Si tratta di attività per le quali spesso non è soltanto il risultato che conta, ma soprattutto il percorso, la modalità con cui si produce quel determinato risultato o opera. Molto spesso questi interventi sono finanziati da fondi pubblici e hanno finalità sociali, di “inclusione” oppure di benessere o di terapia e coinvolgono pubblici diversi tra loro. Alcuni hanno obiettivi esplicitamente educativi o formativi come le arti socialmente impegnate (la cosiddetta “socially engaged art”). In alcuni Paesi europei l’arte come forma di terapia viene rimborsata dal sistema sanitario.
Il tema della ricerca in ambito artistico
I confini tra il lavoro tradizionalmente riconosciuto come quello proprio dell’artista con i circuiti che certificano la sua opera autoriale (artista, critico, galleria, collezionista) e l’output sperimentale spesso interdisciplinare, digitale, nello spazio fisico, sono sempre più labili. Ma se le strutture che garantiscono o sostengono il valore dell’opera tradizionale esistono già, per l’artista/curatore nello spazio pubblico o nella rete, tali strutture di sostegno o luoghi di elaborazione di un pensiero teorico che riguardi il valore dell’arte come processo di ricerca fondata sulla pratica, fanno fatica ad emergere.
Inoltre, e non è cosa di poco conto, i nuovi ambiti di ricerca che esplorano territori sconosciuti o meglio non ancora mappati in aree disciplinari diverse, sempre più importanti per il nostro comune futuro, rimangono senza riconoscimento in ambito universitario, spesso per lo scetticismo (o inconfessabili ritrosie) degli stessi accademici.
Molte categorie di professionisti “creativi” stanno sviluppando competenze in aree vitali delle collaborazioni intra-artistiche tra arti visive, danza, teatro, multimedialità, informatica che non vengono studiate se non come fenomeni marginali rispetto alle Arti con la A maiuscola.
Le industrie creative
D’altro canto, tali ricerche tra le discipline hanno poco o nulla a che vedere con quelle definizioni di “industrie creative” che l’economista Richard Florida interpretava un tempo come fenomeno urbanistico/comunitario che riqualifica le città, fenomeno equivalente a suo parere alle avanguardie artistiche d’un tempo.
Di fatto le cosiddette “industrie creative” sono una fase a valle dello sviluppo di un’idea o di un talento, che non richiede ulteriore elaborazione, ma marketing, promozione e commercializzazione. Le cosiddette creative industrieshanno sì riqualificato la città attraverso spettacolari ristrutturazioni di archeologia industriale, (vedi Zona Tortona a Milano) ma non certo in qualità di “comunità creative”, piuttosto attraverso investimenti immobiliari e trasformazioni d’uso in costosi quanto esclusivi showroom della moda.
Come possiamo dunque generare una conversazione diversa, più aperta e più profonda sul lavoro artistico contemporaneo e i suoi tanti campi d’interesse, i linguaggi e le tematiche che esplora?
Chi sono i creativi
La categoria dei creativi non comprende solo gli artisti in senso stretto, ma anche curatori, registi multimediali, performer, designer, musicisti, esecutori, fashion designer, gli inventori di software non solo commerciali, ecc. Le idee dei progettisti creativi (dall’inglese creative practitioner) possono provenire da molte aree diverse, e possono essere riconosciute come “creative” quando sono focalizzate sul potenziale del loro materiale per raccontare nuove storie, relazioni, o produrre nuove rivelazioni su noi stessi, la nostra cultura e il mondo in cui viviamo.
Nelle tesi di dottorato in practice based research non è richiesta una riflessione ragionata, anzi può essere indesiderata, soprattutto se l’artista sta cercando un ‘abito mentale’ diverso o un risultato in cui cervello e corpo lavorino all’unisono. Percorsi di ricerca fondati sulla pratica soprattutto nel Regno Unito e in Australia sono ormai riconosciuti e richiesti come parte integrante della formazione di nuove figure professionali nell’ambito delle arti.
Le buone pratiche all’estero: la danza
In un ambito creativo come la danza la practice based research potrà essere davvero importante in quanto potrà dare nuova dignità a discipline che toccano le emozioni e che sono di fondamentale importanza per una società in cui le relazioni tra le persone sono sempre più mediate e raffreddate dagli schermi, mentre i rapporti fisici sono quasi temuti, spesso aggressivi. Un piccolo esempio: come spiegare la conoscenza inconscia e intuitiva che ha un danzatore del proprio corpo, oppure un portantino che passa veloce spingendo il suo carrello per le calli affollate di Venezia senza urtare mai nessuno? O ancora nella danza di comunità guidata da Virgilio Sieni che porta madri e figlie a danzare insieme in un percorso di scoperta reciproca, in cui i rapporti si rovesciano e dopo pochissimo è la figlia che conduce la madre…
Linda Candy, studiosa e autrice che ha dedicato molte pubblicazioni al tema della practice based research, tra questi il testo The Creative Reflective Practitioner, (Routledge 2019) in un testo riassuntivo del 2006 afferma:
“è importante fare una chiara distinzione tra ricerca basata sulla pratica e pratica pura. Molti professionisti direbbero che la “ricerca” è una parte necessaria della loro pratica quotidiana. Come dimostrano i documenti pubblicati dai professionisti creativi, la ricerca di nuove comprensioni e la ricerca di nuove tecniche per realizzare le idee è una parte sostanziale del loro lavoro. Tuttavia, questo tipo di ricerca è, per la maggior parte, diretta verso gli obiettivi particolari dell’individuo in quel momento, piuttosto che cercare di incrementare il nostro bagaglio condiviso di conoscenze in un senso più generale”.
La differenza sostanziale è secondo Candy _ che la practice based research cerca di generare intuizioni culturali inedite, forzando i limiti dei linguaggi, forgiando nuovi saperi e il riconoscimento di tali saperi. È proprio per questo che è di fondamentale importanza poter documentare e comprendere a fondo tali processi.
Anna Detheridge
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