È necessario parlare ancora del caso delle dimissioni alla mostra documenta

L’incapacità di discostarsi dalle proprie categorie, di abbandonare anche solo per un attimo il proprio punto di vista porta all’estremo le dinamiche di relazione. Come dimostra anche l’imbarazzante silenzio intorno al caso documenta

Vorrei riprendere il discorso relativo alla lettera di dimissioni del comitato di selezione da documenta. E ripartire dalla conclusione del testo, così devastante nella sua apparente semplicità: “Nelle attuali circostanze, non crediamo che ci sia spazio in Germania per uno scambio aperto di idee e per lo sviluppo di approcci artistici complessi e sfumati di cui gli artisti e i curatori di documenta hanno bisogno”.
Nel frattempo, a completare lo scenario, si è aggiunta un’altra lettera aperta inviata alla piattaforma e-flux dai due curatori curatori Manuel J. Borja-Villel e Vasif Kortun (il primo, ex-direttore del Museo Nazionale Reina Sofìa di Madrid), la cui application congiunta alla direzione artistica della mostra a quanto pare sarebbe stata scartata per motivi di “controllo e supervisione politica” da parte dei vertici, prima ancora di essere valutata nel merito dal Comitato stesso: “quello che una volta era un luogo di sperimentazione e di autonomia sta diventando un posto di controllo”.

Il caso documenta: Manuel J. Borja-Villel e Vasif Kortun

È chiaro che questa mostra di arte contemporanea, a ragione definita la più grande e influente del mondo, è finita al centro di una specie di tempesta perfetta. Eppure. Eppure, non sembra che questi avvenimenti a prima vista oggettivamente epocali, che coinvolgono direttamente tutta una storia che affonda le sue radici nell’immediato dopoguerra, smuovano alcunché nel dibattito pubblico, in particolare da noi. (Ammesso poi che un dibattito pubblico esista, da qualche parte).
E non sto parlando dei media generalisti. Avete visto da qualche parte, sulle riviste specializzate, opinioni su ciò che sta accadendo, voglio dire vere opinioni, non articoli che semplicemente riportano la notizia, i nomi, i virgolettati? Può darsi che me li sia perse, che mi siano sfuggite, ma io no. La sensazione è che all’interno del mondo dell’arte – tranne qualche sparuta eccezione sui social: ma i social non sono il luogo dove esprimere in modo articolato il proprio pensiero – tutti stiano molto attenti a non dire proprio niente sulla questione, a starne accuratamente alla larga.

Manuel Borja Villel, ex direttore del Museo Reina Sofia. Alle sue spalle, Guernica di Picasso
Manuel Borja Villel, ex direttore del Museo Reina Sofia. Alle sue spalle, Guernica di Picasso

La questione della libertà dell’arte in Germania

Come se, in fondo, ciò che accade in queste settimane non avesse per nulla a che fare con l’arte, con le opere, come se fosse qualcosa di lontano e separato e non il nucleo stesso, radiante, dell’arte. Vale la pena riprenderla, ancora una volta, la frase conclusiva del comitato: “Nelle attuali circostanze, non crediamo che ci sia spazio in Germania per uno scambio aperto di idee e per lo sviluppo di approcci artistici complessi e sfumati di cui gli artisti e i curatori di documenta hanno bisogno”. Capito? In Germania non c’è lo spazio, non in qualche oscura e arretrata dittatura di un posto sperduto… 
E se uno dovesse considerare tutti i membri del dimissionario comitato dei pericolosi sovversivi (cosa che dubito fortemente essi siano), basta andarsi a leggere le parole di un’altra lettera di dimissioni, quella di Bracha Lichtenberg Ettinger, la quale ha dichiarato, citando anche Walter Benjamin, molto francamente di non poter più affrontare il compito assegnatole vivendo in un paese in guerra, Israele appunto: “Di recente avevo chiesto di rallentare l’intero processo. Il mondo dell’arte così come l’abbiamo immaginato è imploso, ed è oggi frammentato: che cosa può portare l’arte ai nostri tempi oscuri? La domanda sul senso dell’essere umani è strettamente connessa a quella sul senso dell’arte. Gli artisti non sono qui per decorare la politica. La funzione dell’arte non è quella di estetizzare le idee politiche”.

Il mondo dell’arte e l’implosione

Il mondo dell’arte così come l’abbiamo immaginato è imploso”. Quindi, da persone competenti, responsabili, lucide e degne di essere ascoltate attentamente, vengono dette in maniera pacata cose terribili sullo stato dell’arte, del sistema artistico, della cultura occidentale e sulla possibilità stessa di uno scambio intellettuale all’altezza dell’epoca che stiamo vivendo, ma queste cose vengono dette nel silenzio assoluto.
Al massimo, sono circondate dal sussiego e da un silenzio imbarazzato, che sta per diventare infastidito. La discussione presuppone la riflessione, sia individuale che collettiva. Possiamo per il momento dire che le nostre società artistiche e culturali hanno fatto in modo di eliminare accuratamente sia l’una che l’altra, credendo forse che redazionali ben confezionati sostituissero lo “scambio aperto” di cui abbiamo bisogno. 

Fridskul Common Library, Fridericianum, Kassel, June 17, 2022, photo: Victoria Tomaschko
documenta fifteen: Fridskul Common Library, Fridericianum, Kassel, 17. Juni 2022, Foto: Victoria Tomaschko

Il dibattito intorno al presente nel board di documenta

Con il risultato di un’altra sostituzione più insidiosa: la polarizzazione e l’ipersemplificazione come modello di gestione di ogni problema sul tavolo. È un mondo che, per usare un eufemismo, non ama granché le sfumature. 
Inviterei i lettori a considerare qualcosa di cui si saranno già accorti, molto probabilmente: i conflitti geopolitici che noi vediamo dispiegati sui nostri schermi ogni giorno e ogni ora non sono affatto distanti, ma rappresentano piuttosto la versione estrema, cruenta, intensificata di una modalità estesa di relazione di cui di fatto facciamo esperienza – in maniera infinitamente meno traumatica – di continuo. L’incapacità cioè di discostarci dalle nostre categorie, di abbandonare anche solo per un attimo il nostro punto di vista (tenendo peraltro presente che queste categorie e questo punto di vista potrebbero anche essere non così genuino come creiamo, e magari in gran parte costruiti altrove…) e di assumere davvero, almeno per un attimo, quello dell’altro. Che vuol dire, banalmente, diventare l’altro (= smettere di essere noi stessi: null’altro che la funzione basilare dell’opera d’arte) e non costruirci un altro a nostro uso e consumo, l’altro come vorremmo che fosse e come ci farebbe comodo che fosse, l’altro come un’altra versione di noi stessi. Incapacità unità alla volontà di sminuire, denigrare, distruggere l’altro proprio in quanto portatore di un punto di vista e di una prospettiva diversi, radicalmente o meno, rispetto ai nostri; distruggere l’altro perché l’altro non è noi. La guerra nasce esattamente da questa incomprensione; la guerra è questa povertà e impossibilità di immaginazione. 
Questo è ciò che un po’ di tempo fa ho chiamato la dittatura dell’o-o.

Christian Caliandro

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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