Le esperienze artistiche sperimentali e anticonformiste vanno istituzionalizzate oppure no?
Cosa avviene quando un progetto sperimentale fa la storia? E quale deve essere il ruolo delle istituzioni in questo contesto? Può una storia anticonformista essere istituzionalizzata? L’opinione della storica dell’arte Elvira Vannini
Nella storia dell’arte italiana ci sono diverse esperienze di luoghi o iniziative che hanno fatto sperimentazione, lanciato artisti oggi fondamentali, costruito idee e movimenti. Come fare per salvaguardare questo tipo di esperienze? Come garantirne la storia e la sopravvivenza? È giusto o sbagliato chiedere alle istituzioni di occuparsene? E cosa succede quando una dimensione sperimentale entra nelle maglie di un sistema istituzionale? Dopo gli interventi di Marco Scotini e Gino Gianuizzi, lo abbiamo chiesto alla critica e storica dell’arte Elvira Vannini.
L’opinione di Elvira Vannini: l’istituzione queer
Credo ci siano due polarità in questa riflessione: il divenire queer dell’istituzione, da una parte, e l’esercizio di un’istituzionalità alternativa, dall’altra. Si tratta di un processo istituente (quindi molecolare e rivoluzionario): queerizzarel’istituzione non significa riferirsi (o disattendere) l’identità di genere ma assumerne il potenziale sovversivo nella costante ridefinizione dei meccanismi di funzionamento della sua macchina governamentale e contro le forme neoliberiste di ordinamento. Oltre al concetto della sperimentazione che è relativa ai linguaggi, credo sia importante includere quelle esperienze anti-istituzionali – che tracciano prospettive femministe, queer, trans*, antirazziste e antifasciste – con cui avvicinarsi ad archivi che sono allo stesso tempo trasversali e geopoliticamente situati, con un lavoro creativo su documenti, immagini e voci che popolano questi depositi di memoria materiale e immateriale, insieme alla risocializzazione delle vicende ai margini delle narrative ufficiali ed egemoniche, di un sapere differenziale, insubordinato e locale.
Gli archivi del Museo Prado di Madrid
In questa direzione, penso all’esperienza degli Archivos del común, al Reina Sofía di Madrid sotto la direzione di Manuel Borja-Villel che, invece di acquisire in blocco archivi di artisti come hanno fatto la Tate per l’America Latina o alcune istituzioni viennesi per l’Est o, rispetto ai femminismi, la Galleria Nazionale di Roma per il fondo Carla Lonzi, per renderli poi, di fatto, inaccessibili al pubblico, ha sperimentato nuovi modelli di archiviazione per preservarne l’antagonismo estetico-politico e la sperimentazione socio-linguistica, come nelle collezioni documentarie del collettivo cileno CADA (Collectivo Acciones de Arte) di cui ha finanziato l’intera catalogazione e dopo aver individuato un’istituzione in Cile che potesse riaccoglierlo – nella convinzione che gli archivi devono essere situati, dentro genealogie plurali ma locali – alla fine il Museo ha tenuto una copia dell’archivio da esporre, aprire alla consultazione e alla didattica, implementando straordinari programmi di ricerca per “contro-pubblici subalterni”, sull’immaginazione radicale, il posizionamento degli archivi e l’ecofemminismo, considerando lo spettatore non un consumatore passivo ma un soggetto politico.
Elvira Vannini
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