Femminismi contro. Intervista alla critica d’arte Elvira Vannini
Ri-rappresentare il passato per cambiare il presente. Con Elvira Vannini - docente, critica e storica dell’arte - abbiamo parlato dell’arte come approccio intersezionale alla politica, tra femminismo, decolonialismo e anticapitalismo
Elvira Vannini è critica e storica dell’arte. Dal 2010 è docente presso NABA – Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Nel 2017 ha fondato il blog/magazine Hot Potatoes (www.hotpotatoes.it) dedicato ai rapporti tra arte, genere e politica affrontati secondo una prospettiva femminista. Dopo aver concluso la Scuola di Specializzazione in Storia dell’arte, ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia dell’arte contemporanea presso l’Università degli studi di Bologna. Questo dialogo presenta alcuni dei temi affrontati nel libro “Femminismi contro. Pratiche artistiche e cartografie di genere, curato da Vannini e pubblicato dall’editore Meltemi per la collana GeoArchivi, in collaborazione con NABA – Nuova Accademia di Belle Arti.
“Femminismi contro” raccoglie otto saggi che invitano a riflettere tanto sulla pluralità creativa alla base delle pratiche artistiche quanto sulla configurazione di una cartografia critica imprescindibile per il dibattito contemporaneo. Quali sono le principali ragioni che ti hanno motivata a curare questa antologia?
Nei miei interessi intellettuali e politici sui saperi, le pratiche artistiche e le funzioni creative che hanno intercettato il pensiero femminista ci sono stati due momenti di ricerca e di scrittura. Da una parte, la rivoluzione dei movimenti di liberazione delle donne e di tuttɜ quellɜ artistɜ che sono state invisibilizzatɜ dal discorso patriarcale, dall’altra il riconoscimento che la modernità, il capitalismo e la colonialità del potere sono fenomeni sincronici. Cosa c’entra l’arte con queste lotte? Il modo in cui l’estetico interviene nella formazione di immaginari contro-egemonici – senza limitarsi ad aggiungere nuovi materiali e formulazioni teoriche (le soggettività genderizzate e razzializzate) ai canoni, i metodi e le narrative della storia dell’arte – può produrre un paradigma femminista con cui leggere le fenomenologie artistiche: questa è una delle ragioni. L’antologia è la terza pubblicazione della collana editoriale GeoArchivi, diretta da Marco Scotini, come tentativo di decentramento degli studi artistici e le sue rappresentazioni culturali a partire da vettori di critica sociale, postcoloniale e di genere, che attraversano anche i temi e i formati didattici in NABA. Il punto politico di una narrazione dell’arte (oltre la fiaba modernista e da una prospettiva femminista) è cambiare il presente attraverso il modo con cui ri-rappresentiamo il passato.
Nonostante, come scrivi nella introduzione, la selezione che proponi sia l’esito di una scelta – attraverso dissertazioni di tono critico o dal sapore più narrativo – i saggi concorrono comunque a costituire un discorso unitario. Provando a formulare una sintesi basata su alcuni dei temi che affrontano, a tuo modo di vedere, di che discorso si tratta?
Credo che un discorso unitario tra critica, politica ed estetica, nonostante l’eterogeneità dei contributi – per le tematiche connesse all’agenda femminista e la difformità dei registri di scrittura e di analisi – sia da rintracciare nella traiettoria anti-capitalista che si muove contro il sistema neoliberista e contro la cancellazione patriarcale, dando voce ai corpi disobbedienti, queer, non-normativi, invisibili nei documenti ufficiali, rivisitando, nelle storie al plurale, le esperienze ai margini dell’ontologia modernista, poco o quasi mai raccontate.
Artiste, critiche, curatrici. Le autrici di ciascun saggio – Salima Hashmi, Geeta Kapur, Lucy R. Lippard, Trinh T. Minh-ha, Bojana Pejić, Griselda Pollock, Nelly Richard, Wassyla Tamzali – mettono in discussione alcuni dei presupposti alla base del pensiero e dello sguardo tanto sulle trasformazioni delle arti quanto sui possibili discorsi critici che le interessano. A emergere è che il loro discorso rinvia continuamente a fattori che prima di essere strettamente artistici sono evidentemente culturali, radicati in abitudini e tradizioni maturate nel tempo. Quali sono le principali metodologie che orientano le loro critiche?
Le possibilità di un approccio transculturale alla storia dell’arte e la decostruzione del modello di modernità-colonialità orientano molte delle voci raccolte. Così come la storicità, nel ripensare al presente la storia, la teoria incorporata che il femminismo ha potentemente ricollocato al centro del discorso politico e l’intersezionalità delle lotte nell’interconnessione delle relazioni di dominio sono tra le metodologie assunte per far saltare la crono-normatività e l’identità stilistico-formale della storiografia artistica. La voce fuori campo della filmmaker vietnamita-americana Trinh T. Minh-ha critica l’antropologia coloniale con il documentario contro-etnografico Reassemblage (1982) e ce lo ricorda empiricamente: “Non intendo parlare di, ma solo parlare vicino”; così come la scrittrice e cineasta Assia Djebar afferma la necessità di sguardo situato, quando racconta le donne di Algeri, senza la pretesa di “parlare per conto di”, ma con l’impegno a parlare “vicino a” e, se possibile, “contro di”, come primo gesto di solidarietà delle donne arabe che hanno conquistato la libertà. La metodologia, forse, potrebbe essere indicata come un “parlare accanto” e un “parlare contro”.
Seguo il filo della pluralità. Nel loro insieme i saggi lasciano trasparire anche un legame particolare tra cultura, politica e geografia. Da dove trae origine la tua scelta di dare voce a femminismi dal Sud del mondo, a posizioni periferiche rispetto a quelle eurocentriche?
La storia dell’arte, così come l’abbiamo (inesorabilmente) ereditata, ha una matrice eurocentrica e patriarcale perché chi ha avuto il potere di raccontarla è oggettivato in un corpo bianco, maschile e occidentale. Il famigerato canone ha funzionato come sistematica omissione, ha esacerbato la subordinazione periferica e le forti asimmetrie di potere culturale tra le diverse regioni del mondo, cancellando, non per amnesia ma per deliberata strategia politica, tutte le eccedenze extra-artistiche tra cui il femminile, ovattato dall’ordine fallocentrico e dalle narrative eteronormative. Ma lo slogan “il personale è politico” racconta solo una parte delle molteplici oppressioni, di genere ma anche di classe, razza, casta e marginalità. La scoperta delle voci dissidenti dalle periferie della modernità, l’invisibilità del discorso femminista nell’Est, la forza di insubordinazione dei movimenti dall’America Latina, trasformano il “Sud” in una sorta di linea di fuga che attraversa corpi, soggettività e territori per armare, con la complicità estetica e politica, le molteplici forme che il subordinato e il minoritario assumono occupando i bordi, ai confini dei sistemi di rappresentazione egemonica. La proposta decoloniale non può ignorare queste storie.
Un tema altrettanto cruciale, che emerge in particolare dai saggi di Hashmi e Kapur, è quello della crisi della rappresentazione: tanto nelle pratiche artistiche quanto nelle formulazioni teoriche su di esse. Secondo te, a quali fattori si deve questa inclinazione anti-rappresentazionale?
La potenza della visione anti-egemonica non sta nella sua codificazione/rappresentazione ma nei confini tra il visibile e il nascosto, per sradicare quei linguaggi che avevano dissimulato ogni potenzialità emancipatrice da tutte le oppressioni. Sappiamo che proprio il discorso identitario è uno degli strumenti del padrone, tra i più resistenti. Parlerei piuttosto di contro-rappresentazioni, in rapporto ai molteplici “regimi di visibilità” che l’arte può assumere e che introduce una domanda sulle “strutture” (ideologico-culturali oltre che economiche) che includono ed escludono (sovra-rappresentano o sotto-rappresentano). Interrogare le retoriche con cui i dispositivi di rappresentazione dominanti assegnano le categorie di “identità” (centro) e “differenza” (margine, periferia) che naturalizzano il genere (maschile, femminile), permette all’immaginazione critica di sognare altri mondi possibili e rimane una promessa di liberazione per l’arte.
Benché quella che proponi non sia una “traiettoria lineare”, il libro ritrae un periodo di discussione: dagli Anni Ottanta a oggi. Ai suoi estremi vi sono i saggi di Lippard e Pollock. La prima descrive il femminismo come “un sistema di valori”; la seconda rileva la persistente critica verso il concetto di ‘differenza’ nel quadro delle politiche culturali dei femminismi. Circa quarant’anni caratterizzati da più necessità: lavorare sul dialogo e il confronto, non rinunciare a trovare nuove forme di espressione. Che cosa ne pensi?
Le forme di espressione, a cui ti riferisci, incentrate sul dialogo e sulla relazione, sono ben esemplificate dalla ricomposizione della collettività nel corpo moltitudinario della nuova ondata transfemminista che, per me, ha funzionato come una sorta di filtro: non è un caso che la metafora femminista preferita sia quella della rete senza centri, del quilt, della ragnatela (contro la linearità gerarchica e verticistica della storia patriarcale), o segua piuttosto lo scenario acquatico di cui parla Rosa Luxemburg riferendosi allo sciopero che, mentre scorre per tutto l’impero, si disperde in un enorme flutto o sgorga in migliaia di rivoli e affluenti o, altre volte, è completamente sommerso. L’approccio femminista del “working together” mette in atto una “sfida traumatica” (Griselda Pollock) alle forme egemoniche della storia, creando un nuovo soggetto politico e collettivo la cui istituzione ha bisogno della lotta per esistere.
Davide Dal Sasso
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