Ecco come è andato il festival #WALLOFSOUNDS 2023 a Palermo
La quinta edizione del festival, svoltasi lo scorso dicembre, si è caratterizzata per la commistione di voci e iniziative. Ed è emerso
Il festival #WALLOFSOUNDS di Palermo, curato da Gaetano La Rosa, è arrivato alla quinta edizione, dedicata alla memoria dell’artista Guido Baragli (Palermo, 1962 – Bologna, 2023). Il tema portante di tutte le manifestazioni – concerti, performance, mostre – è stato un controcanto ai muri che sempre più si alzano tra le culture e i popoli. In questa prospettiva #WALLOFSOUNDS ha agito come un dispositivo che ha concatenato la pratica delle arti in una polifonia. Si è trattato di esplorare le diversità dei modi del sensibile, persino al di là dei cinque sensi tradizionalmente riconosciuti. Anzi, in una specifica esperienza del suono si è trattato di una caosfonia: è il caso dell’intervento di Enrique Del Castillo e di Manuel Zarria, dove l’eco del suono – indirettamente – ha fatto da sponda alle impronte visive di artisti di diversa provenienza geografica. Questo festival non ha avuto un singolo luogo, ma si è diffuso in varie parti della città come un arcipelago; gli eventi sono stati dislocati tra la Basilica della Magione, il Museo Diocesano e l’Archivio Storico Comunale.
Il festival #WALLOFSOUNDS a Palermo
#WALLOFSOUNDS, come metafora dello stato dell’arte oggi, non poteva esistere senza la partecipazione di coloro che ne hanno fatto esperienza attiva. Se è vero che lo spazio sonoro è il primo spazio psichico – l’utero come cassa di risonanza – non diversamente alcune esperienze artistiche in questo festival si sono poste al di qua della mera significazione o dell’evidenza del contenuto.
È in questo vuoto apparente di “senso” che lo spettatore si è trovato ad essere investito d’un ruolo specifico: come inserirsi nell’opera sonora, nella performance, nelle impronte (frottage) o nelle grafie asemiche?
Questo particolare, decisivo, ha proiettato il festival in un orizzonte di resistenza al senso come feticcio da consumare, nella misura in cui ogni “comunicazione” relativa all’arte, secondo il curatore – che in ciò segue Gilles Deleuze – rientra in un sistema di controllo. Su questa scia il festival, nelle sue varie manifestazioni, sembra aver suggerito che non si può leggere una poesia di Allen Ginsberg, di Quasimodo o di qualsiasi altro poeta, come Churchill col suo aristocratico sigaro leggeva il giornale. L’arte come esperienza fuori cornice (sistema dell’arte) in questo festival non si è adattata ai suoi oppositori: non è stata apprezzata come un articolo di consumo culturale, ma sperimentata corpo a corpo.
Il significato perde di significato al festival #WALLOFSOUNDS di Palermo
I turbamenti, la rottura deliberata del confine tra reale e immaginario, gli spaesamenti sonori, come le perdizioni visionarie e i superamenti delle barriere temporali, hanno fatto parte di questo festival.
Un significato si può sempre riprodurre, ma una performance, un suono accidentale e inedito, un frottage o un segno che simula una scrittura, sono pure enunciazioni: esistono al di fuori di ogni possibile duplicazione. Questa ostinata disidentità (del senso) può certo costituire un motivo di resistenza dell’arte alla sua messa in cornice estetica. Perché, in questo caso, l’obiettivo del curatore è stato quello di invitare artisti la cui ricerca ha più a che fare con un campo allusivo che con quello descrittivo di un contenuto qualsiasi. Questo campo allusivo è il magma (o rizoma) indeterminato e inesauribile delle pulsioni, dei sensi, ma anche della sensualità – sempre indefinibile –, dove il corpo, il gesto, il segno, il suono, sono sperimentati come fatti che non si scambiano con nulla – non hanno equivalenti, perché il corpo eccede sempre lo scambio della comunicazione in quanto azione-incarnata.
In questo scenario, il festival si è caratterizzato per aver operato un passaggio dall’egemonia dell’arte concettuale all’impronta. Se il concetto derealizza (stabilisce il primato delle idee sulla materia), il corpo realizza, si concretizza nelle tracce sugli altri, indipendentemente dai rapporti logici: si tratta di “apprendere”, “ascoltare”, “vedere”, “toccare”, in senso contrario ad ogni concettualizzazione. È in questa presa del suono e dell’immagine e del loro farsi reciprocamente eco, che tutti gli artisti per un breve lasso di tempo si sono trasformati in una comunità provvisoria. Sono usciti dal guscio individuale per costruire e sperimentare azioni sonore, visive, performative… Ma insieme, come un rituale collettivo, nel quale piaceri e politiche della collaborazione, hanno trasformato il festival in un controcanto alla solitudine digitale e alla sua implicita esclusione interattiva, che è il diktat del presente.
Il linguaggio asemico di Enzo Patti al festival #WALLOFSOUNDS
È in questa direzione che il festival in modo obliquo ha suggerito che la pratica dell’arte è allo stesso tempo una politica del caos, un po’ come Nietzsche quando affermava che “bisogna avere del caos dentro di sé per partorire una stella danzante”. Una percussione che scuote i sensi ma che scuote anche l’occhio quando è portato a guardare segni dimentichi di qualsiasi senso, ma fortemente evocativi come quelli di Enzo Patti (Favignana, 1947). Infatti, in una suggestiva installazione ospitata dall’archivio comunale, dal tetto fa calare una foresta di nastri con segni “asemici”. Bande che sono una specie di pseudo-pittografie, dove sono mostrati astratti alfabetari, che sembrano avere un’origine magica. Alfabetari che tecnicamente rinviano ad una texture fatta di simulazioni di grafi scritturali, che rivelano una propensione archeologica del segno: il fondo della scrittura prima di essere “testo” narrativo, è tessuto, cioè tempo di memorie, forse, perdute.
Patti mette in gioco con la ripetizione ossessiva di un sistema di segni astratti, una complessa grafologia, che in assenza di un contenuto specifico, approda all’incantesimo della meditazione. La simulazione di un corpus di lettere – che non indicano nulla – diventa un manifesto contro-analogico, suggerendo, come già Barthes aveva osservato sulla scia di Leroi-Gourhan, che il grafismo esordisce non con l’imitazione, ma con l’astrazione.
Il frottage di Matteo Fraterno
Ma l’occhio è percosso anche quando è posto di fronte ai frottage di Matteo Fraterno (Torre Annunziata, 1954), dove le insistenze modulate della mano su una superficie cartacea registrano un insieme di impronte, che dalla causalità accidentale di un muro, rimbalzano come venature, i cui bordi ruvidi però alludono alla crudezza delle pareti del carcere dove questi frottage sono stati registrati. Queste venature afferrano l’occhio proiettandolo in una specie di storia naturale che è il contraltare della storia “innaturale” delle mura di un carcere. In questo modo Matteo Fraterno mette in relazione le mura del carcere con la pelle: è come se la pelle dei carcerati si incarnasse nelle mura che li separano dal resto della città.
Ora, il frottage, in quanto tecnica estranea alle tecniche tradizionali, fin dalla sua messa in opera da parte di Max Ernst, ha avuto un ruolo fondamentale nel dare risalto all’accidentale, al ritorno delle forme al caos, dove, come già aveva intuito Leonardo, le venature impreviste provocano l’occhio ad uscire dai confini che lo legano all’adeguamento di ciò che percepiamo a un oggetto definito. Per certi aspetti il frottage che Fraterno mette in gioco è prossimo a una psicotecnica che ci fa uscire dalla cornice della cultura, per immergerci in quella dell’immaginazione. La “cosa confusa” di Leonardo diventa in Max Ernst una scoperta della visionarietà o della bellezza dell’informe, mentre in Fraterno è una allusione alle impronte: quel che resta della vita…E cioè: il fatto che il tempo, l’esperienza, qualunque essa sia, testimonia di una prima e ultima volta. Nel vocabolario del semiotico Peirce è ciò che si chiamerebbe “sinsegno” (una sola volta). L’accidentalità del frottage suggerisce propria questa esperienza del tempo che non si ripete. È per questo che la sua particolarità è affine al significato delle parole “singolo” e “semplice”. Si tratta del substrato, che la tecnica del frottage fa emergere. Le forme – e i significati che gli attribuiamo – emergono in visioni inattese, come accade nel sogno. E che nel caso di Fraterno, alludono ad una ulteriore dimensione semantica. C’è sempre un sottofondo dell’esperienza personale o collettiva, che appare con sorpresa solo a condizione di fare a meno della comunicazione convenzionale. Si tratta di un’arte dello spostamento – o detournement – che apre uno spazio inedito. Se l’arte è anche una esperienza del tempo, allora questo festival si è caratterizzato per aver posto la questione che nell’esperienza dell’arte non si tratta di conservare il significato, e portarselo a casa come un gadget, ma di realizzare le speranze di quel sottofondo del tempo che tocca ciascuno di noi, e che i carcerati ben conoscono quando, come ci suggeriscono i frottage di Fraterno, legano il tempo alla libertà.
Marcello Faletra
#WALLOFSOUNDS ha avuto il patrocinio dalla Fondazione Morra, il Lietuvos Respublikos Ambasada Italijoje / Lithuanian Embassy in Italy, Lithuanian Cultural Institute, ed LMTA Lietuvos muzikos ir teatro akademija.
Oltre ai musicisti Enrique Zarria e Manuel Del Castillo, hanno partecipato con installazioni, proiezioni e mostre Julius Aglinskas, Juste Janulyte, Annika Katja & Renaud Mundabi Muyanunu, Olga Domnina, Giulio Boato/Heiner Goebbels, Rytis Mazulis, Marta De Pascalis.
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