Il problema della cultura in Italia non è l’inefficienza, ma l’indifferenza
Perché il settore culturale italiano non genera ricchezza come dovrebbe? La risposta è da ricercare in politiche e nomine che nascono dalla mancanza di adeguate considerazioni
In una sua recente riflessione, Nicola Lagioia, giornalista, scrittore, ed ex direttore del Salone del Libro, si concentra su quella che, a suo avviso, è la reale minaccia alla cultura del nostro Paese. “Penso”, scrive Lagioia sulla piattaforma Lucy, “che la questione dell’egemonia culturale tra destra e sinistra sia l’ennesima ventata di fumo negli occhi per occultare una questione più seria e annosa: la mancanza di idee, di progettualità, di investimenti in cui i governi di ogni ordine e grado si sono distinti negli ultimi anni e che quest’ultimo sta portando all’eccellenza, col conseguente pericolo che l’Italia diventi una provincia delle arti, una presenza culturale di terz’ordine”.
L’autolesionismo del settore culturale
Affermazioni del tutto condivisibili, che tuttavia si fermano soltanto all’ordine delle conseguenze, alla dimensione più chiara ed evidente dello stato della cultura nel nostro Paese.
È in un’altra occasione che, sempre Lagioia, ha identificato con esattezza una delle più dannose patologie del nostro sistema culturale. Salone Internazionale del Libro 2023, Lagioia si prepara a diventare, dopo 7 anni di mandato, l’ex-direttore della Fiera editoriale più importante del nostro Paese. È in un’intervista di commiato che, dopo aver chiarito che “la cosa che mi assomiglia di meno sono i notabili e i burocrati” ne spiega il motivo: “I notabili e i burocrati che si mettono ad occuparsi di cultura sono una cosa abbastanza faticosa. E sono tanti, perché la cultura, che per noi è la cosa più importante del mondo, per i notabili è dove un notabile trombato viene mandato: non conta niente per loro che vorrebbero invece stare altrove”.
È questo il nucleo patogeno di quella malattia autoimmune che conduce il nostro sistema culturale ad un autolesionismo sistemico e tecnico, privo di slancio e di metafora. Sarebbe forse il caso di riflettere e comprendere se a tale autolesionismo il nostro sistema culturale si sia progressivamente assuefatto, o se da sempre tale pratica abbia costituito una caratteristica strutturale della vita culturale pubblica del nostro Paese.
La cultura in Italia ha un problema di indifferenza
Restando tuttavia nel mero campo dell’osservazione, la sola possibilità che ci siano, in posizioni di responsabilità all’interno del sistema culturale, persone che di cultura non si sono mai occupate e né vorrebbero farlo, genera quel sapore di epifania che si prova quando si riesce a sbrogliare un indovinello. Di colpo, fenomeni fino a poco prima incomprensibili appaiono nella loro logica schiacciante, come la sostanziale inutilità di moltissimi milioni di euro che ogni anno vengono spesi in cultura nel nostro Paese senza che questi generino realmente un cambiamento nella vita delle persone. Non è l’inefficienza, il problema. Il problema è l’indifferenza. Perché è l’indifferenza che causa inefficienza. Diviene chiaro, ad esempio, perché un Paese come l’Italia, che sulla propria cultura ha costruito una narrazione così imponente, non abbia una politica culturale che si rispetti. E non da anni. Da decenni. E diviene anche chiara questa attenzione piuttosto spasmodica che le nuove nomination di governo stanno ricevendo da tutti i partiti (sia al governo che all’opposizione), e dalle riviste di settore, se non quelle generaliste.
Cultura e settore privato
La soluzione a questo aspetto, risulterebbe essere dunque l’iniziativa privata, che tuttavia si trova ad agire in un contesto che l’assenza di politiche culturali rende quasi asfittico. Perché l’iniziativa privata, cosa che nel campo della cultura in Italia abbiamo quasi dimenticato e che in Francia (per riprendere l’articolo di Lagioia) riesce ad attirare grandi mostre come quella di Mark Rothko alla Fondation Louis Vuitton, nasce per soddisfare una domanda. Certo, in qualche caso la crea, ma soltanto a fronte di importanti ritorni attesi. Ritorni che, è evidente, il settore culturale non riesce a generare.
Il risultato di questa serie di nuove consapevolezze è una catena logica che conduce direttamente ad una delle condizioni più contro intuitive che riguardano il modo con cui tutti, in Italia, guardano alla cultura, settore in cui il privato, pubblicamente osteggiato, è chiamato a generare dei benefici di natura pubblica, supplendo a carenze evidentemente pubbliche, senza che tuttavia possa realmente beneficiarne. Non sarebbe meglio fossero dunque i privati a scriverla questa politica culturale che da così tanti anni l’Italia della cultura sta aspettando?
Stefano Monti
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