Fra passato e futuro. La Biennale di Diriyah 2024

Più di 100 artisti s’interrogano sulle radici storiche e gli equilibri sociali della macro-area che va dal Medio Oriente all’Indocina. Ecco com’è la seconda edizione della Diriyah Biennale, curata da Ute Meta Bauer

After Rain, dopo la pioggia. Un titolo che allude a quel profumo terroso che emana da una combinazione di batteri e oli vegetali accumulatisi nelle rocce e nel suolo durante i periodi di siccità. Ma allude anche all’euforia che la pioggia nel deserto lascia dietro di sé, e alle nuove energie con cui affrontare la giornata e la vita. È il clima che il piano pluriennale di sviluppo Vision2030 ha portato in Arabia Saudita e di cui beneficia anche il campo artistico e culturale in genere: una delle sfide sarà quella di equilibrare con saggezza l’apertura alla “modernità” e il mantenimento dell’identità e delle tradizioni locali.
Su questo s’interroga la Biennale curata da Ute Meta Bauer, così come sul futuro di tutta quella macro-regione continentale che va dal Medio all’Estremo Oriente, con incursioni in Africa e America Latina; un’indagine svolta guardando al passato, partendo da radici antichissime che sono ancora oggi, in quelle zone del mondo, un elemento di unità sociale e spirituale, da preservare contro una modernizzazione che spesso viene identificata con il consumismo.
Allestita nei moderni padiglioni del JAX District, ex area industriale nella storica cittadina di Diriyah convertita a cittadella cultura, questa seconda edizione della Biennale ha un carattere d’indagine socio-antropologica che rispecchia la maggiore vitalità dell’arte contemporanea asiatica e mediorientale rispetto a quella dei “ricchi ed evoluti” Paesi occidentali. Meno interessata agli esercizi di stile, l’arte di queste regioni emergenti crede ancora in quello che fa, “combatte” ponendosi domande e resta ben ancorata nell’identità locale. E gli artisti europei invitati a partecipare, selezionati fra coloro che meglio potevano integrarsi con il carattere della Biennale, trovano una cornice concettuale che ne esalta la forza concettuale.
Artisti, architetti, scrittori, poeti: After Rain li riunisce in quanto portatori di conoscenza che indagano il rapporto fra esseri umani e natura, s’interrogano sull’antropizzazione, interagiscono con i paesaggi che ci circondano, dal mare al deserto, traendone tutto un sistema di valori culturali e spirituali grazie anche ai quali nei secoli la civiltà è progredita.

Biennale di Diriyah: il patrimonio della tradizione 

La peculiarità della Biennale è l’aver riunito artisti asiatici e mediorientali – anche delle precedenti generazioni, in parte ancora oggi da scoprire – per dare corpo a una narrazione che si dipana fra motivi decorativi tradizionali arabi, l’arte dei tappeti, la bellezza di paesaggi unici anche se aspri, dove i colori delle stagioni creano opere d’arte non replicabili dalla mano dell’uomo. Un patrimonio materiale dietro cui si cela un altro immateriale, fatto della spiritualità che avvolge il primo: ogni abito tradizionale, ogni oggetto rituale, ogni motivo decorativo, ogni angolo di territorio sono, o erano, vissuti in un rapporto al limite del sacro. Fra gli esempi più calzanti, la serie di fotoincisioni Turathuna (119-99) della saudita Safeya Binzagr, che documenta la varietà e l’eleganza degli abiti tradizionali delle varie regioni saudite, minacciati però dall’incombente “modernizzazione”. Opere raffinate, dietro le quali si celano anni di ricerca sul territorio, svolta con la costanza di chi crede nella salvaguardia della cultura e delle sue specificità, a tutti i livelli.
Toccante Life is a woven Carpet (1995), della palestinese Samia Zaru, una grande installazione composta da frammenti di lana usata per i tappeti, di creta usata per le abitazioni tradizionali palestinesi, frammenti di vetro giallo che ricordano le rocce del deserto, e che si fa metafora della saggezza accumulata nei secoli con una paziente opera di osservazione e produzione materiale. Se ancora oggi, nel deserto arabo, guardare le stelle è una passione assai diffusa, una ragione deve pur esserci; anche a Diriyah si guardano le stelle per tracciare una rotta e cercare di individuare una posizione sull’asse infinito della storia.

Diriyah Biennale of Contemporary Art 202, installation view. Photo Marco Cappellletti, Courtesy of Diriyah Biennale Foundation
Diriyah Biennale of Contemporary Art 202, installation view. Photo Marco Cappellletti, Courtesy of Diriyah Biennale Foundation

Ecologie antropologiche alla Biennale di Diriyah

Ma questa Biennale va ben oltre la catalogazione storica; è principalmente una ricerca documentaria, fotografica in particolare, sul presente e i possibili futuri, fra rischi paventati e speranze di fratellanza. In Arabia Saudita i cambiamenti più importanti, pur graduali, interessano il mondo delle donne, che stanno sperimentando libertà mai provate sino ad ora; commissionata dalla Biennale, la serie fotografica Women of Riyadh (20XX) di Christine Fenzl racconta le donne saudite della capitale, colte nei loro ambienti domestici, in atteggiamenti affettuosi in famiglia, mentre camminano da sole per strada, quasi sempre senza velo; una padronanza del corpo e dell’intimità impossibile da esprimere in pubblico sino a poco tempo fa. 
La riflessione si allarga anche a temi più ampi: i nostri sono tempi di continue migrazioni, dovute a conflitti armati o disastri ambientali, migrazioni che significano spostamenti, riposizionanti di dimensioni bibliche; nel suo lavoro cartografico e installativo, Global Displacement (2023), la vietnamita Tiffany Chung (essa stessa una rifugiata negli anni della guerra del Vietnam), utilizza dati attendibili dell’UNHCR e altre agenzie per rendere comprensibili le proporzioni delle tensioni e delle ineguaglianze fra il Nord e il Sud del mondo. 
Seguendo il filo della migrazione e del nomadismo, i motivi decorativi tradizionali del popolo Rom – che non lontano da qui, sugli altopiani dell’Iran, è transitato molti secoli fa –, spiccano nei grandi e colorati ritratti della serie Siukar Manusia (2022) di Małgorzata Mirga-Tas, la cui ricerca antropologica esprime l’appartenenza a una cultura che è stata (e in parte lo è ancora adesso) marginalizzata e discriminata.
Pur nella grande varietà di opere, la Biennale si segnala per omogeneità dei concetti e per l’armonia estetica dell’allestimento, che ne fanno una mostra di spessore dalla quale si esce arricchiti di conoscenze antropologiche e geopolitiche, una mostra dalla quale sono banditi gli esercizi di stile e il ruolo dell’artista è ben radicato nella società.

Niccolò Lucarelli

https://biennale.org.sa/en

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Niccolò Lucarelli

Niccolò Lucarelli

Laureato in Studi Internazionali, è curatore, critico d’arte, di teatro e di jazz, e saggista di storia militare. Scrive su varie riviste di settore, cercando di fissare sulla pagina quella bellezza che, a ben guardare, ancora esiste nel mondo.

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