Il Padiglione israeliano a Venezia non va boicottato, ma supportato. Ecco perché
È dal 7 ottobre che non solo artisti ebrei ma anche musulmani o cristiani– hanno perso il proprio lavoro. Il Padiglione israeliano non va cancellato, ma implementato con la presenza di un artista palestinese
Biennale 2022. Cammino davanti al Padiglione russo e rimango colpita della sua chiusura domandandomi: se avessero avuto la possibilità di parteciparvi, come si sarebbero espressi gli artisti russi, nel mezzo di una guerra che è stata imposta dall’alto e che nessuno voleva, anche perché metà dei cittadini russi hanno origine ucraina così come metà degli ucraini hanno origini russa.
Lo dico per cognizione di causa perché vivo e lavoro da quindici anni in Israele dove oltre un milione di cittadini provenienti da quelle ex-repubbliche sovietiche hanno ricevuto asilo politico qua, dopo il crollo dell’URSS.
Tra di loro c’è anche Ludmilla, madre di Maria Saleh Mahameed, artista arabo israeliana la cui mostra da me curata, Ludmilla, un omaggio alle origini ucraine della madre, è in corso presso il Castello Svevo di Trani. L’esposizione è parte di un progetto più ampio di tre mostre itineranti – tra Trani, Lecce e Polignano – volte a rappresentare, attraverso l’arte, tutta la diversità e la complessità di Israele. Come nel caso di Maria, figlia di padre palestinese, musulmano, e di madre ucraina, cristiana.
Il boicottaggio di Israele
Il profilo di Maria non è un’eccezione, bensì una regola. Israele è un Paese di immigrati, giunti da tutto il mondo: ebrei di origine europea, sopravvissuti ai pogrom e alla shoah; ebrei di origine araba, sopravvissuti alle dittature dei Paesi da cui sono dovuti scappare a causa dell’antisemitismo; assieme, vivono da 75 anni fianco a fianco con la popolazione palestinese locale, molta della quale, dopo la fondazione dello Stato Israele nel 1948, ha deciso di diventare parte della nazione.
Oggi rappresentano il 20% della popolazione, del parlamento, della Corte Suprema, dell’esercito, del personale medico negli ospedali e dei docenti nelle università.
Quando lo scorso novembre oltre 4.000 docenti italiani hanno firmato un appello per boicottare i colleghi israeliani mi sono chiesta – prima di tutto – perché, invece, non avessero pensato di aiutare i colleghi palestinesi, creando programmi di scambio come hanno sempre fatto, per decenni, con le università israeliane, dove conveniva di gran lunga, essendo l’accademia italiana ridotta ai suoi minimi termini – sia sul piano economico che su quello della ricerca – mentre quella israeliana è sempre stata leader su scala internazionale.
Il giorno in cui venne pubblicato quell’appello scellerato – e colmo di errori storici – ho scritto pubblicamente che il mio timore più grande era che l’appello successivo sarebbe stato quello per boicottare il Padiglione israeliano alla Biennale.
Il boicottaggio del Padiglione israeliano alla Biennale
Detto, fatto. Nulla di rivoluzionario, dunque. Quasi un cliché. Sarebbe stato molto più significativo, e producente, invitare ad una collaborazione tra artisti israeliani e palestinesi, come hanno fatto durante il Festival di Berlino dove è appena stato premiato il documentario No Other Land, diretto da una squadra di registi israeliani e palestinesi: Yuval Abraham, Basel Adra, Hamdan Ballal, Rachel Szor.
Proprio nel corso dell’ultima Biennale, del 2022, Ilit Azoulay aveva esposto un’istallazione – Queendom – risultato di un collage di opere d’arte del Museo Islamico di Gerusalemme, sottolineando la continua contaminazione tra culture di cui Israele è quintessenza.
Boicottare il Padiglione israeliano della Biennale, dunque, significa – come nel caso del boicottaggio alle università – boicottare tutti quegli artisti (o professori) che, da sempre, rappresentano la voce più critica di Israele.
Sono loro che per 39 sabati consecutivi hanno sfilato lungo Kaplan Street, opponendosi al malgoverno del premier Benjamin Netanyahu. Chi li boicotta, de facto, sta – forse addirittura inconsapevolmente – uccidendo tutte le cellule sane di quell’organismo che, da anni, sta cercando di combattere un cancro.
Con questo e tutti gli altri boicottaggi – a partire dallo sfortunato caso di Zerocalcare durante Lucca Comics – altro non si fa che condannare a morte quella voce, vitale, critica nei confronti dello stesso esecutivo israeliano.
Peggio ancora. È dal 7 ottobre che non solo artisti ebrei ma anche musulmani o cristiani – proprio come Maria – hanno perso il proprio lavoro: centinaia di mostre cancellate in tutto il mondo solo perché questi cittadini palestinesi hanno scelto, 75 anni fa, di prendere parte all’unica democrazia del Medioriente in cui alle donne è consentito di studiare, lavorare, essere un’artista, esporre in tutto il mondo. Maria aveva persino vinto il Premio Rappaport come migliore artista israeliana del 2023, nella categoria “artista emergente”. Tra i veterani, invece, il premio era andato a Hannan Abu-Hussein, artista araba israeliana nota per le sue opere d’arte come forma di denuncia nei confronti della violenza sulle donne, di cui lei stessa era stata vittima, provenendo da un villaggio arabo fortemente tradizionalista, dove per poter esercitare la sua passione – e professione – era stata costretta a scappare di casa per studiare a Bezalel, l’Accademia di Belle Arti di Gerusalemme, per poi diventare docente presso il Kibutzim College di Tel Aviv.
Verso un padiglione israelo-palestinese: la proposta
L’arte, per lei come per molti artisti arabi israeliani, è sempre stato un veicolo per esprimere la propria voce, anche come minoranza. Perché se l’arte, nella sua storia ed evoluzione, è sempre stato uno strumento di resistenza, in Israele, più che mai, è sempre stato lo specchio di una società complessa – tanto frantumata quanto ricca – e boicottarla non sarà che un, inutile, tentativo di cercare di soffocare questa complessità.
Sfido, dunque, i curatori di questa Biennale, affinché, invece di boicottarla, affianchino Mira Lapidot e Tamar Margalit, curatrici dell’artista israeliana Ruth Patir, a un altro curatore che porti, nello stesso padiglione, un artista palestinese.
Ce ne sono a bizzeffe e hanno bisogno del nostro aiuto. Soprattutto se auspichiamo, seriamente – e non solo a parole – un futuro di pace. Così come io ho scelto, quindici anni fa, di vivere in questo Paese così complesso, dove ho avuto la grande opportunità – tra molte altre – di iscrivere mio figlio Enrico ad una scuola mista, dove studia arabo ed ebraico assieme a bambini ebrei, musulmani e cristiani. I suoi migliori amici, guarda a caso, si chiamano David e Mohammed e un giorno, neanche troppo lontano, uno di loro potrebbe diventare primo ministro di Israele.
Per questo il Padiglione israeliano non va boicottato, ma supportato.
Per il futuro di Enrico, David e Mohammed.
Fiammetta Martegani
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati