La bellezza bene-rifugio dell’arte del presente. Fenomenologia di una regressione culturale
Quando i concetti di arte e industria artistica si sovrappongono, la prima ne esce inevitabilmente con le ossa rotte. E si trasforma
E quindi, la bellezza è un rifugio – estremo, dolce, comodo. La bellezza, proprio quella bellezza che era stata rifiutata, rinnegata, cancellata delle avanguardie e dalle neoavanguardie, in mille modi rientra oggi dalle finestre e dalle porte di servizio. Chi potrebbe mai dirsi, infatti, contro la bellezza? Chi dichiarerebbe di essere sfavorevole ad essa? Questa, intanto, come più volte peraltro abbiamo notato su queste pagine, è una delle manifestazioni di quanto questo periodo storico sia ‘regressivo’. Voglio dire, dalla politica alla società alla cultura, è piuttosto evidente che non siamo in presenza di una progressione, ma opere e idee tendono a tornare indietro, ad attestarsi su posizioni di conservazione e di difesa.
La bellezza, bene rifugio nell’arte del presente
In questo senso, la bellezza non è solo un rifugio ma più precisamente un bene-rifugio: in mancanza di altre certezze e appigli, paradossalmente quella diventa un baluardo. E lo diventa proprio nella sua ridefinizione (una volta inconcepibile) in quanto kitsch. La tanto a lungo screditata Scuola di Francoforte in fondo aveva ragione, e su più fronti: almeno questo, l’esaurimento del postmoderno lo lascia intravedere… Non solo l’arte e l’industria artistica non sono affatto la stessa cosa, ma quando a tappe forzate la seconda soppianta completamente la prima, ovviamente anche il concetto stesso di arte risulta del tutto trasformato.
La concentrazione esclusiva sul prodotto (anche e forse soprattutto quando nell’arte contemporanea esso si presenta come processo) non può che portare a una certa ottusità, dell’opera, di chi la fa e dei suoi spettatori. Tutti sommariamente e soddisfatti, le chiedono un messaggio chiaro e univoco o anche nessun messaggio, le chiedono una patente di intelligenza e di esclusività e di privilegio sociale e di mondo intellettual-chic. (In quest’ottica, Marcel Duchamp che poneva la secca alternativa tra arte “come plagio o come rivoluzione” risulta ai più in quest’epoca un vecchino simpatico ma un po’ ridicolo, fuori tempo e fuori moda: ma certo, visto che oggi puoi avere il plagio e la rivoluzione!, e meglio ancora, il plagio come rivoluzione!, e la rivoluzione come plagio!) ((A patto però, manco a dirlo, che la rivoluzione non sia poi così tanto rivoluzionaria, perché il mettere in discussione tutta la cornice è veramente maleducato e uncool, non si fa…))
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Il consumo della bellezza e il patrimonio culturale
Anche la sovrapposizione della ‘bellezza’ con il fatto che essa debba essere consumata necessariamente dal maggior numero di persone, fenomeno in cui noi italiani siamo diventati eccellenze assolute – per cui entrando per esempio nel museo importante-famoso-famosissimo siamo completamente spersonalizzati, ridotti a parte di un gregge che non ha alcun diritto alla fruizione delle opere, un gregge che deve marciare da un capolavoro all’altro senza fermarsi mai e senza capire niente, tanto i biglietti sono già pagati e staccati e prima uscite meglio è – ecco questo dare per acquisito il consumo di bellezza e la bellezza consumata ha come inevitabile risultato il fatto che poi il modello del consumo si sia esteso praticamente a tutte le opere (non solo visive).
Scriveva ieri Paolo di Paolo: “Nella minuscola porzione o bolla di mondo di cui faccio parte per mestiere, di libri si parla continuamente. Spesso perdendo di vista l’indifferenza (che a tratti mi pare perfino sana) del resto degli umani agli oggetti su cui continuiamo a scambiarci veloci, approssimativi, esteriori, stucchevoli o irritati, ghignanti pareri tra addetti ai lavori e ai livori. Com’è il nuovo libro di? Hai visto, è in classifica? Ma secondo te va allo Strega? No, forse va al Campiello. Forse da nessuna parte. I libri di cui parliamo, in larga parte, non li acquistiamo: arrivano. Pacchi di carta imbottita e gialla, scatole che si accatastano nelle portinerie. (…) Non è facile amare il troppo, l’esubero, la ripetizione. La passione calda si raffredda, o finisce per conservare una tepidezza costante – l’anticamera dell’assuefazione. Nelle redazioni dei programmi televisivi o radiofonici passano ogni giorno decine di libri, finiscono nelle mani dei conduttori per il tempo della registrazione o della diretta, poi vengono abbandonati. Nelle officine degli editor, le prime bozze si riempiono di post it, poi diventano seconde bozze, si va in stampa: è passata un’altra stagione, e il tempo per leggere altro si è sfarinato, non c’è più. Non è carino dirlo, anzi è fastidioso, ma è così. È grave? No, è inevitabile” (Paolo Di Paolo, In Italia non c’è più nessuno con cui parlare di letteratura, “Limina”)
Il consumo come unica forma di relazione con l’opera, e con il linguaggio di cui è fatta. L’opera come oggetto di consumo esiste solo quindi nella sua presenza mediatica, al massimo se è in grado di scatenare qualche scandaletto o qualche shitstorm sui social per un giorno o due: e quindi deve la sua esistenza solo e soltanto a motivi extra-artistici, cioè extra-opera.
Non so, mi pare che una volta tutta questa faccenda si chiamasse alienazione.
Christian Caliandro
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Christian Caliandro
Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…