Giotto e Fontana a confronto. La mostra a in Sardegna a Nuoro
Oltre seicento anni separano Giotto di Bondone e Lucio Fontana, i protagonisti della mostra del Man di Nuoro. A far da sfondo al loro dialogo, il colore d’oro, il suo simbolismo e la sua trascendenza
Lo spazio è il problema cardine dell’arte figurativa fin dalle origini. Il nuovo progetto del Man di Nuoro, GIOTTO | FONTANA. Lo spazio d’oro, è impostato in tal senso, indagando il rapporto tra la ricerca spaziale di Lucio Fontana (Rosario, 1899 – Comabbio, 1968) e il senso dello spazio nelle creazioni di Giotto di Bondone (Colle di Vespignano – Vicchio, 1267 circa – Firenze, 1337), senza tralasciare la valenza simbolica del colore oro, che include la possibilità dell’infinito e dell’altrove.
L’oro, Giotto e la rottura della bidimensionalità
Com’è concepita la spazialità dall’arte bizantina e medievale? L’ancoraggio al reale e la tridimensionalità tendono a perdere consistenza. Non ci deve essere “traccia di pesantezza terrena. Bisogna purificare la visione da ogni contingenza“, scriveva Massimo Cacciari nel piccolo saggio Adelphi del 2007 Tre icone, se si vuole rendere visibile l’invisibile. Ciò che prevale è il fondo oro dei mosaici e delle tavole che sacralizza il manufatto artistico. L’oro non è concepito solo come colore: è un simbolo che rimanda al divino e che connota ieraticamente le figure dipinte nelle icone. Irrigidite in schemi prefissati che escludono l’espressività e il movimento, sono prive di corporeità. La quotidianità è inesistente, il vissuto è tagliato fuori. Del paesaggio neanche a parlarne. Poi arriva Giotto che fa saltare, mediante una nuova visione della realtà e dello spazio, la staticità delle immagini, creando scene dinamiche e narrative. In che modo? “Bucando” la sacralità dello spazio. Il fondo oro si modifica: non è più lontana e distaccata trascendenza, ma si trasforma in un cielo reale soggetto ai mutamenti atmosferici, diventa lucente e cristallino nelle giornate di primavera, rischiarato dalla luce della luna e delle stelle, nell’oscurità. L’artista innesta il senso della terza dimensione. Basta guardare con attenzione la cappella degli Scrovegni a Padova, affrescata nel 1303-1305, dove progetta e realizza un’illusione architettonica: quella dei due coretti dipinti sulla parete di fondo, che sembrano la continuazione dello spazio reale della cappella. “Giotto spazioso”, lo definisce Roberto Longhi nel 1952, “per i due finti vani” che “bucano” il muro. Il grande pittore si allontana consapevole dall’astrazione rappresentativa, dalla bidimensionalità, dal linearismo e dalla frontalità, suggerendo che anche l’esperienza spirituale è inseribile in uno spazio tangibile.
E che il fondo oro non è già più la condizione irreale della tradizione pittorica bizantina, ma il “mezzo per manifestare la Luce Intelligibile”.
Il dialogo tra Giotto e Fontana al Man di Nuoro
La mostra tematica del Man quindi vuole far dialogare due autori che hanno influenzato nel profondo l’arte occidentale.
Da un lato Giotto, il primo artista, per Ghiberti e Vasari, che abbia tratto ispirazione dalla natura e sia stato in grado di captare un’idea di realtà, e che sarà poi adottato da Novecento, il movimento che auspica il ritorno alle forme classiche e che riconosce a Giotto il merito di aver contribuito a definire l’idea occidentale della forma artistica. Due apostoli è la prima opera chiamata in causa. Pubblicata per la prima volta da Miklòs Boskovits nel 2018. La raffinatezza e la grandiosità del disegno fanno ritenere che si tratti di un prodotto realizzato nella bottega e sotto la supervisione di Giotto, databile tra la metà e la fine del terzo decennio del Trecento. In una fase matura dell’attività giottesca. I due personaggi, nella loro solennità, sono perfettamente inseriti nello spazio. Uno spazio dorato arioso profondo. Come nella Maestà di Ognissanti, in cui la corte celeste, Madonna e Bambino compresi, sono inseriti in un ambiente concreto. L’infinito diventa realtà fisica, toccabile. E l’oro sembra abbandonare la propria valenza simbolica.
Dall’altro Lucio Fontana, con il Concetto spaziale del MART di Rovereto. La scenografia nuova di Giotto si muta in uno spazio mentale realmente tridimensionale. L’artista di origine argentina non lo rappresenta ma lo costruisce. Lo crea. E lo può fare in quanto scaglia la mente oltre la superficie della tela per attingere a “un altrove da afferrare con le mani, da ghermire nella materia, da reificare in una immagine, in un corpo, in un volto o in un gesto”, come aveva precedentemente scritto la direttrice del Man Chiara Gatti.
Lucio Fontana e lo spazio come concetto
La fisicità del nostro ambiente, in cui siamo e in cui interagiamo con le opere, non è più opposta allo spazio ideale della creazione artistica, ma si lega ad esso mediante i buchi e le fenditure sulle tele. Tagli, buchi che non vanno interpretati secondo un’ottica distruttiva ma costruttiva, come aperture che si spalancano sull’enigma. Sono varchi che Fontana produce nella ricerca dell’oltre. Oltre che non sappiamo cosa sia. E neanche l’artista ne è a conoscenza. Ma lui non è obbligato a fornire risposte, solo a porre domande. E lo fa proponendo non un quadro nel senso tradizionale del termine ma un concetto. Come a dire che l’opera non tende a rappresentare qualcosa. Superando ogni legame con la residua tradizione figurativa è diventata un concetto reso visibile. “Scoprire il Cosmo”, sostiene Lucio Fontana, “è scoprire una nuova dimensione. È scoprire l’infinito. Così, bucando questa tela – che è la base di tutta la pittura – ho creato una dimensione infinita”. L’essere riuscito a concretizzare un’altra dimensione mentale è ancor più evidente nei dipinti d’oro. Oro che perde la propria connotazione cromatica per assumere quella dell’astrazione antinaturalistica, impossessandosi della totalità dello spazio. Oro che implica nella sua conformazione visivo-compositiva la luce stessa. Che diventa elemento plastico basilare quando Fontana realizza le prime sculture al neon. Il dialogo che la mostra propone a distanza di secoli è credibile. Condivisibile nel chiamare in causa due autori accomunati dalla stessa motivazione: la materializzazione dell’immateriale, la tensione verso l’infinito e il trascendente. Che ha alle proprie spalle una riflessione letteraria molto articolata, immersa nel tormento della pittura per la figurazione dell’assoluto. Un nome per tutti, Georges Bataille, che declama la violenza che un artista/uomo fa a stesso per dire l’infinito che lo abita. Che lo tortura in modo esagerato per i limiti degli strumenti di cui dispone. Ma è una necessità alla quale l’artista non può sottrarsi: non può cessare di rispondere.
Fausto Politino
https://www.museoman.it/it/index.html
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati