Futuro Antico. Intervista a Hedwig Fijen, direttrice di Manifesta
Si sta preparando alla sua 15esima edizione la biennale itinerante Manifesta, quest’anno ospitata dalla città di Barcellona. Abbiamo intervistato la fondatrice e direttrice Hedwig Fijen, per parlare di luoghi e di futuro
Hedwig Fijen (Haarlemmerliede, 1961) ha studiato Storia e Storia dell’Arte presso l’Università di Amsterdam. È la fondatrice e direttrice Manifesta, la Biennale Europea d’Arte Contemporanea, sin dalla sua creazione a Rotterdam nel 1993. Sotto la sua direzione, Manifesta è cresciuta fino a diventare una tra le biennali più influenti al mondo. Nel corso degli anni, Fijen ha notevolmente ampliato le attività di Manifesta con progetti teorici ed educativi, rivoluzionando il volto delle città che l’hanno ospitata. Responsabile di tutti gli aspetti dell’organizzazione di Manifesta, compresa la selezione delle città ospitanti, il contenuto tematico e la selezione curatoriale, Fijen è stata curatrice presso l’Ufficio Olandese delle Belle Arti e ha svolto attività in Europa dell’Est, nell’Unione Sovietica, a Cuba e in molti altri Paesi.
Quali sono i tuoi riferimenti ispirazionali nell’arte?
Mi sono formata come architetta e storica, quindi molte delle mie referenze nel passato erano legate ai cambiamenti sociali e geopolitici nel mondo e a come questi si riflettevano nell’universo artistico. La sfida era tradurre queste narrative estremamente tecniche in narrazioni immaginarie. Recentemente, specialmente dopo Palermo, Marsiglia e il Kosovo, la nostra ispirazione artistica è diventata più filosofica, collegata alla transizione socio-ecologica.
Quindi, la prossima Manifesta, a Barcellona, si occuperà di transizione ecologica e cambiamento climatico, e di come le città si svilupperanno in relazione all’innovazione del design e dell’ecologia. In particolare ci occuperemo di come prendersi cura del mondo e degli altri.
Questo è un cambiamento che accoglie i contributi non solo da parte di curatori e mediatori, ma anche da parte di collettivi e ricercatori la cui principale occupazione è la transizione ecologica e sociale. Al momento, stiamo collaborando con Embassy of the North Sea, che monitora come sta cambiando la vita degli oceani, e con organizzazioni che coinvolgono attori non umani, eco-femministe e gruppi con disabilità.
In che modo l’arte può affrontare proficuamente le questioni ecologiche?
C’è stato un grande shift da un focus sull’arte contemporanea tradizionale verso pratiche più interdisciplinari, con un’attenzione ai cambiamenti socio-politici. Molti dei politici neo-liberali non sono in grado di creare una visione in termini di immagini e storytelling ed è arrivato il momento che gli artisti facciano la differenza nella creazione di una visione. A Manifesta 14 in Kosovo è diventato molto chiaro che raccontare storie diversamente, creare storie con le comunità, è sempre più importante, soprattutto in Paesi con molti conflitti e questioni sociali aperte. Questo può avvenire attraverso la letteratura, l’architettura, il social design, il cinema, dando voce anche ad attori non umani come alberi, fiumi e mari, vogliamo dare voce e immagini alla transizione ecologica che è completamente interdisciplinare e intergenerazionale. Penso che l’estate del 2023 sia stata la prova che il cambiamento climatico non è solo un’ossessione degli attivisti di sinistra, ma chiunque in Italia, Grecia, Marocco, Turchia e in tutto il mondo ha potuto constatare di essere spettatore di un clima estremo, con inondazioni, tempeste, climi aridi e incendi. È interessante indagare su come l’arte tradizionale stia affrontando questo cambiamento ecologico.
Qual è il progetto che ti rappresenta di più? Puoi raccontarci la sua genesi?
Manifesta 14 in Kosovo rappresenta il meglio di ciò che Manifesta è oggi. Abbiamo cominciato nel 1993 e sono passati trent’anni, ma siamo cambiati moltissimo e il Kosovo è stata l’esperienza più importante per vari motivi. Primo, l’area geopolitica era molto interessante, non eravamo mai stati nei Balcani e mai in una zona di post-conflitto. Nel momento in cui eravamo in Kosovo, è iniziata la guerra in Ucraina, eravamo nel posto giusto al momento giusto in Europa per discutere cosa significhi vivere in un Paese che ha conosciuto la guerra. Quando siamo arrivati in Kosovo, i kosovari non avevano accesso all’Europa, e credo che Manifesta sia riuscita ad attivare un cambiamento. Per la prima volta, la “Biennale Nomadica” non è stata solo di passaggio, ma siamo riusciti ad includere nel nostro progetto un’istituzione locale permanente di lungo periodo. Non era un’istituzione per l’arte contemporanea, ma per lo storytelling chiamata Centre for Narrative Practice. Un’altra ragione è stato l’approccio interdisciplinare. Manifesta non si è focalizzata solo sull’invitare artisti contemporanei, ma anche architetti e studiosi. Abbiamo dotato la città di giardini e piste ciclabili, e pubblicato un libro con Carlo Ratti su come la città può essere trasformata. In Kosovo, abbiamo poi aggiunto un elemento diverso rispetto all’approccio curatoriale classico, invitando i cittadini a partecipare al processo attraverso 400 incontri; questo è anche il motivo per cui Manifesta 14 è stata così di successo, perché non era solo la visione di un curatore, ma un programma di partecipazione dal basso in grado di coinvolgere i sogni e le idee dei cittadini. Abbiamo attivato dieci venue, di cui sei saranno ancora attive per i prossimi quattro anni grazie ai finanziamenti di Manifesta. Tutto questo ha cambiato non solo il Kosovo, ma anche Manifesta.
Abbiamo portato oltre 500 giornalisti a Pristina, e sono un po’ orgogliosa che la Commissione Europea abbia deciso che dal 1° gennaio 2024 i cittadini del Kosovo possono avere accesso libero nell’Unione Europea. Non voglio dire che Manifesta abbia fatto tutto da sola, ma il coinvolgimento di giornalisti e opinionisti che hanno sottolineato come fosse ingiusto che i cittadini del Kosovo non potessero viaggiare liberamente è stato sicuramente d’aiuto. Questo è quello che per me rappresenta il cambiamento da una biennale tradizionale a qualcosa di diverso. Non so come chiamarla, ma non è più una biennale tradizionale.
Che importanza ha per te il genius loci nel tuo lavoro?
Siccome siamo una Biennale nomadica, l’unica nel mondo, il rapporto con i luoghi è estremamente importante. Le città invitano Manifesta, e questo è completamente diverso dal non essere invitato. Come ha scritto il filosofo Jacques Rancière, il rapporto tra ospite e invitato è fondamentale. Sindaci, produttori artistici e culturali, ma anche politici invitano Manifesta con un compito specifico. Questo significa che la città ci aiuta a raggiungere questo obiettivo: il contesto politico e sociale e Manifesta sono completamente interconnessi. Ad esempio, Ada Colau, il sindaco di Barcellona, ci ha invitato perché voleva provare a trasformare la parte più urbanizzata della città, limitando il turismo di massa e creando dei super quartieri. Le istituzioni culturali sono tutte nel centro storico, raccolte per i turisti, ma i nuovi catalani vivono nelle periferie di Barcellona e questa città metropolitana, in cui vivono cinque milioni di persone, non ha infrastrutture culturali. Manifesta aiuterà a crearne una.
Questo è qualcosa che non si può fare da soli. Stiamo lavorando in dodici diverse aree urbane, tutte legate all’area metropolitana di Barcellona.
La site-specificity di Manifesta è ciò che le persone amano di questo progetto, perché noi siamo l’unica biennale in cui architettura e cultura contemporanea si muovono insieme. A partire da Palermo, abbiamo sempre invitato un architetto e un urbanista per mappare dove siamo, dove atterra Manifesta, per identificare quali questioni e alternative ci sono sul territorio.
Quanto è importante il passato per immaginare e costruire il futuro?
È molto chiaro per noi che stiamo facendo una trasformazione culturale verso il futuro. Siamo stati la prima biennale con curatori indipendenti, la prima nel mondo a lavorare con collettivi curatoriali, architetti e urbanisti. Questa trasformazione che coinvolge le ambizioni politiche della cultura, cerca di trascendere la tipica biennale di arte contemporanea in un nuovo modello che possa lasciare una legacy di lungo periodo nei territori e che possa essere adatta per il XXI secolo.
Quale consiglio daresti a un giovane che voglia intraprendere la tua strada?
Essere molto curiosi, lavorare nell’interdisciplinarietà, creare ponti con il teatro, l’ecologia, la sociologia, il design, il social design, cominciare a dialogare con la politica e, la cosa più importante, sviluppare una modalità bottom-up di coinvolgere le persone in maniera partecipativa. Questo è l’unico modo con cui la mia generazione può coinvolgere strati più ampi di popolazione e non solo professionisti dell’arte contemporanea.
In un’epoca definita della post-verità ha ancora senso e forza il concetto di sacro?
Noi non ci occupiamo di questo tipo di tematiche. Piuttosto, parliamo di apertura e trasparenza. Con le nuove tecnologie, l’intelligenza artificiale e i social media, gli artisti giocano un ruolo cruciale nell’identificare quali sono le vere storie di cui prendersi cura e quale è la disinformazione da evitare, il lavoro per l’industria tecnologica è di limitare i post anonimi e la disinformazione. L’intelligenza artificiale sarà incontrollabile nel creare nuove storie, e siamo di fronte a una sfida epocale che sarà difficile da gestire.
Come immagini il futuro? Sapresti darci tre idee che secondo te guideranno i prossimi anni?
Raccontare le storie in maniera diversa per contrastare la disinformazione. Lasciar andare l’attitudine neo-liberale della società. Dare un nuovo ruolo alla cultura per creare strategie visionarie per il futuro. Le persone hanno bisogno di sogni, storie e idee, e la cultura può svolgere un ruolo enorme nel crearli. Dobbiamo usare il ruolo politico e cruciale dell’arte e della cultura per re-immaginare il mondo.
Marco Bassan
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