Conflitti d’identità. Intervista all’artista Adelita Husni-Bey
“Il mondo occidentale si prodiga per insegnarci che essere arabi non va bene” racconta Adelita Husni-Bey, artista italo-libica tra le protagoniste di una mostra a Tripoli
Adelita Husni-Bey (Milano, 1985) è una delle artiste coinvolte nella mostra Arte come identità, insieme ad Elena Mazzi e Shefa Salem, promossa dall’Ambasciata d’Italia in collaborazione con la Municipalità di Tripoli e aperta alla Eskander Art House di Tripoli. Husni-Bey espone in Libia per la prima volta, e ci racconta come ha vissuto questa esperienza.
Che cosa ha significato per te esporre per la prima volta in Libia, il Paese di origine della tua famiglia paterna?
È sempre difficile e complicata la relazione di un artista con il proprio Paese. Ricordo che alcuni anni fa, dopo la Primavera Araba, emerse improvvisamente un grande interesse per gli artisti del mondo arabo. Lo reputai una forma di ‘tokenismo’ e infatti passò di moda. In quegli anni fu chiesto anche a me di rendermi ‘portavoce’ delle mie radici e ricordo con fastidio quelle richieste, come se “essere arabi” fosse una categoria uniforme. La verità è che il mio rapporto con le mie radici arabe, come quella di ogni persona che non appartiene perfettamente ad un luogo o un altro, è complessa. Ad esempio ad oggi non parlo bene l’arabo. Questa mostra è stata invece un’occasione per seguire una pulsione, un desiderio, questa volta nato internamente, di guardarle a quelle radici, le mie radici italo-libiche. Crescendo, la mia identità araba era conflittuale, soffrendo di un forma di razzismo interiorizzato che appartiene a molte persone di prima generazione o con un passato da migranti. Il mondo occidentale si prodiga per insegnarci che essere arabi non va bene. Questa è la prima volta che presento in Libia il mio lavoro e mi fa molto piacere.
La scelta di presentare una serie di immagini inedite della Libia, scattate nel 2009, è legato alla tua definizione come artista internazionale?
No, non penso. La serie di fotografie che ho scattato in Libia nel 2009, diversamente dai processi collettivi, che sono diventati una cifra del mio lavoro, fanno parte di una ricerca privata, intima, che non ho mai mostrato, legata anche al rapporto con mio padre.
Quanto le tue memorie libiche hanno influenzato la tua ricerca?
Ricordo che allo scoppio della guerra la mia famiglia dovette abbandonare la casa dove sono cresciuta lasciando tutto. Mia madre, che aveva già un alto grado di disabilità, si imbarcò su una nave turca, mentre mio padre scappò in macchina con mia zia e i miei cugini. Entrambi non sono mai ritornati in Libia perché sono mancati, ed io sono l’unica persona della famiglia ad essere ritornata nel 2023 a Benghazi.. Della nostra casa erano rimaste le mura e il tetto. Erano state portate via anche le porte e le finestre. Ho provato un sentimento molto forte nel vedere il luogo dove sono cresciuta in quello stato, ha provocato in me un desiderio di ricostruzione .
La presenza del ministro delle donne all’inaugurazione a Tripoli ti sembra un segnale di apertura del Paese?
Non sono in grado di valutare questo fatto a livello politico. C’è da dire che la mostra si è svolta in un contesto diplomatico, ma credo che sia un segno di rispetto e di interesse. Penso sia importante però riconoscere che un Paese come la Libia non sia necessariamente ‘chiuso’. Sicuramente ha vissuto molti shock culturali nell’ultimo secolo, ma non è necessariamente un luogo più o meno patriarcale dell’Italia. Penso sia necessario fare attenzione a non proiettare sull’Islam in toto, senza conoscerlo, un’idea di ‘chiusura’ verso le donne.
Che contatti hai con la scena dell’arte libica?
Pochi, ma dopo aver vissuto negli Stati Uniti per dodici anni sono sempre più interessata alla cultura del Nord Africa. Seguo con interesse il lavoro dell’artista e curatrice Tewa Barnosa, che vive e lavora tra Tripoli e Amsterdam e le ricerche dell’architetto Moad Musbahi, oltre al lavoro di Sherazade Mahassini, un’architetta tedesco-marocchina, che studia il rapporto tra territorio ed architettura in epoca coloniale.
Quali sono i progetti sui quali stai lavorando?
Proprio con la Mahassini sto lavorando su un progetto che intreccia le infrastrutture idriche, l’urbanizzazione del territorio dal punto di vista ideologico (prima durante il periodo coloniale, poi sotto Gheddafi) e gli effetti del crollo infrastrutturale che è anche una cifra del collasso più generalizzato nel quale viviamo. Presenteremo questo progetto alla prossima edizione della Biennale di Sharjah nel 2025.
Ludovico Pratesi
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