Musei d’impresa. Casi di studio, buone pratiche e prospettive
Una creatura particolare, il museo d’impresa. Sta di fatto che aziende come Juventus, Campari, Ferrari scelgono di comunicare i propri valori al pubblico utilizzando la formula museale. In questa indagine, i motivi di una scelta che si rivela vincente
Quando parliamo di musei, parliamo certamente di conservazione, educazione e divulgazione; ma parliamo anche (e questo è vero soprattutto per i musei d’impresa) di posizionamento e di comunicazione di una visione: in una parola, di storytelling.
Il seguente articolo si pone come obiettivo l’andare a rintracciare i motivi che spingono grandi aziende della moda, dell’automotive, del beverage, dello sport (e non solo) a scegliere il museo come forma per raccontarsi al pubblico.
Qual è stata la domanda all’origine? La stessa che già ispirò nel lontano 2007 la pubblicazione Heritage Marketing (F. Severino, M. Montemaggi) per i tipi di Franco Angeli. Ovvero qual è il linguaggio che usa un’azienda quando realizza un museo, che non è il suo campo da gioco? Cosa tale azienda vuole dire, che lingua usa per andare a segno? Il museo è uno strumento distintivo e progressivamente sempre più diffuso – e, permettetemi, nobilitante – per raccontare un’idea (imprenditoriale in questo caso) e il suo modo di realizzarla.
Le risposte che scaturirono in quel libro erano: posizionamento distintivo, ampliamento dei canali di dialogo con i propri pubblici, orgoglio per quel che si è fatto e come lo si è fatto. Il museo d’impresa è uno strumento che permette di andare in profondità; è ricco di opportunità (tanto per il suo animatore che per il destinatario) nel raccontare il talento di un innovatore (Ferrari o Armani, giusto per citarne due, non sono altro che quello).
Senza ombra di dubbio è un oggetto culturale al pari di ogni altro museo con collezioni storiche o artistiche. In un museo d’impresa, qualsiasi questa sia, c’è del resto sia storia (tanto dell’impresa stessa quanto sociale) sia arte (i prodotti), quanto meno dal punto di vista della capacità innovativa e creativa.
Il museo d’impresa oggi
Quindici anni dopo, la risposta a quella stessa domanda si è evoluta. Non è un caso che oggi siano molte di più le imprese che hanno realizzato un proprio museo, così come più eterogenee sono le modalità con le quale lo hanno fatto. Alcuni di questi sono stati aperti tanti anni fa, anche venti, come Ferragamo o Ducati, e spesso sono anche cambiati quindi nella “forma”, come il primo dei due ad esempio.
Innanzitutto, è emersa una milestone: tutti i musei d’impresa raccontano una storia, essendo dei contenitori. Ma la storia che c’è dietro risulta più evidente che in altre tipologie di proprietà museali. La risposta è probabilmente perché la storia da raccontare è univoca e circoscritta, essendo il promotore di questo genere di musei un’impresa, ovvero un soggetto ben definito, con un’idea, un progetto e un business da perseguire. Altre tipologie di musei – e ne è pieno – rischiano facilmente di essere meno risoluti nel linguaggio e negli obiettivi. Penso ai tanti musei pubblici che spesso faticano a trovare (e quindi a saper raccontare) una propria storia “finita”. Nel senso di avere una propria compiutezza e organicità. Nei musei d’impresa l’identità la fanno i prodotti realizzati, il know-how e la genialità del suo fondatore.
L’inchiesta è iniziata dall’analisi dell’immagine, ovvero come l’impresa si racconta attraverso l’uso del museo e il percepito del suo pubblico. L’identità è quello che mi sento di essere, l’immagine è quello che dico di me e come lo recepisce il mio destinatario.
È emerso un mondo ricco di tante forme di storytelling, scelte comunicative diverse. Il fine, comprensibilmente, è ancora oggi sempre lo stesso: il posizionamento distintivo. È interessante vedere come questo si possa estrinsecare nelle forme più varie. È prezioso aggiungere a questa analisi bottom up ma laterale, anche il percepito del cliente visitatore. Il museo d’impresa si rivolge ai fan di quel brand e di quei prodotti, l’emozione è forte per tutti i visitatori, le lamentele (pare) infinitesime. C’è così tanto amore in queste visite, sono sempre e comunque delle esperienze intense, anche nelle esposizioni più basiche di prodotto, come nel Museo Lamborghini.
I tre tipi di musei d’impresa
Per semplificazione raggruppiamo i musei d’impresa in tre tipologie. Vi sono quelli legati al prodotto, con intenzioni per lo più celebrative; quelli legati al ruolo sociale, con intenzioni legittimanti. Infine, vi sono quelli legati all’arte, alla sua promozione e divulgazione, quindi con intenzioni filantropiche.
Incipit diversi sono lo specchio di visioni aziendali diverse, con un uso differente del marketing, tra l’altro più o meno esplicito perché il museo non sempre vi afferisce.
Tutti i musei d’impresa, a prescindere dalla tipologia sopra menzionata, puntano all’awareness distintiva, alla reputazione, alla loyalty di clienti e dipendenti.
I musei della moda partono sempre dall’archivio storico, dalla sua esposizione, relativamente pubblica. Vestiti e accessori, fotografie e disegni sono la prima espressione di un museo della moda. Il loro storytelling ripropone l’approccio delle relative aziende. In altre merceologie la componente celebrativa è legata più al prodotto che al produttore, forse perché questi è una figura ritenuta meno creativa, meno personaggio, almeno dal punto di vista del glamour. Si pensi, per esempio ai settori del beverage e dell’automotive. L’imprenditore (Ferrari, Campari, Lamborghini, Pagani…) è percepito dal pubblico meno creativo e fascinoso, viene rappresentato quindi diversamente. I musei si dedicano più al racconto dell’azione imprenditoriale nella società e nei territori in cui operano, o hanno operato nascendovi. Si pensi a Ferrari e Campari: storie familiari e di comunità. Hanno meno la star (lo stilista) e più il leader (ahimè quasi sempre maschile).
Poi ci sono i musei filantropici, come le fondazioni Prada e Louis Vuitton, che né raccontano né accennano l’azienda stessa. Si promuove l’arte, ovvero la bellezza come ideale sociale e di sviluppo umano. Sono infatti anche dei soggetti giuridici a sé, musei aziendali nei limiti che condividono il nome del brand che lo promuove e sostiene. Il Museo Armani è a cavallo tra i due, non escludo che nel tempo lasci (o porti altrove i suoi prodotti) e si concentri sulla filantropia artistica. Ferragamo ha fatto un’evoluzione del genere. Ha lasciato, dopo qualche anno di apertura, la sua storia cronologica e oggi racconta invece con esposizioni annuali qualcosa di sé ma nel legame con la società e il tempo.
Ma al di là di ciò che questi musei della moda hanno deciso di raccontare, come lo raccontano? Ognuno parla con toni diversi, trasmettendo un’identità propria e un’immagine unica.
Il digitale in generale è uno strumento non abusato, forse perché l’oggetto, moda o automobile che sia, abbia un’originalità che il museo, nella sua più classica delle funzioni, raccoglie, conserva ed espone al pubblico. Non vi si può rinunciare – giustamente, aggiungerei, quello che la gente cerca è la matericità, ancor prima del racconto intorno.
Altri musei, seppur d’impresa, sono intrinsecamente diversi. Il Museo Juventus è un’iniziativa per il grande pubblico, che ha come scopo alimentare una fede. Il calcio è sport e lo sport è identificazione. Ci si sente parte di una squadra, spesso simbolo omonimo di comunità, orgoglio. Diversamente uno stilista lo si adula e comunque rimane qualcosa di lontanissimo. Lo sport richiede affiliazione emotiva, partecipazione continua, fede sanguigna e carnale.
Quello che emerge è che i musei d’impresa hanno le idee chiare perché hanno necessità di distinguersi. Ognuno di fatto racconta pezzi diversi di sé (o anche tutt’altro come le imprese filantropiche), con uno storytelling fatto molto di “cose”, di materia, e poco di “immagini”, perché i sogni – almeno lì – vanno “toccati”. I pubblici sono numerosissimi perché a caccia di amore. L’amore oggi sta nel consumo, nel desiderare di avere, per essere, per identificarsi o farsi riconoscere. Ci si veste per piacere o per farsi notare. Si scelgono le auto per sentirsi liberi, col proprio stile. Si beve per stare con gli altri, per abbassare freni inibitori, per gusto. Settori diversi (moda, automotive, beverage, sport, credito…) partono tutti dalla stessa origine e con giri diversi giungono tutti allo stesso punto di arrivo. Essere considerati come essi si sentono, come del resto ogni essere umano: unici.
Fabio Severino
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