Stranieri ovunque, straniero per chi? Le risposte degli artisti alla Biennale di Venezia
Con luci e ombre, più ombre al primo sguardo e luci da mettere a fuoco solo dopo riflessioni approfondite, la mostra funziona nello sguardo esercitato sulla storia
Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, è il titolo della 60. Biennale Arte di Venezia, una traccia per inoltrarsi nella consueta, poderosa esposizione internazionale. Il tema non è dei più nuovi, lo stesso Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere, del collettivo Claire Fontaine, declinato nelle molte lingue della Terra, è di una decina di anni fa, e alle spalle si è stagliata pure la scorsa edizione di documenta Kassel. Pertanto, non era facile tornare a vedere altri mondi e altri assetti teorici dopo l’effetto detonante in termini di pratiche curatoriali, modalità espositive, interlocuzioni tra temi e relativi sviluppi, messi in campo dalla rassegna tedesca.
Lo straniero di Pedrosa
Adriano Pedrosa, direttore di questa Biennale, ha scelto come assunto lo straniero, con aperture semantiche vastissime che, ovviamente, non riferiscono solo di geografie inesplorate culturalmente e artisticamente, ma trascinano l’argomento verso altri modi di essere stranieri, nel genere, soprattutto, e, non da meno, verso la vexata quaestio esistenziale. Un tema “fringe”, dunque, facile solo in apparenza, perché posto su una strada già ampiamente tracciata, ma di fatto talmente aperto, sfrangiato, da sfuggire a se stesso. In questa chiave, l’operazione supportata, come di consueto, da un sostanzioso sforzo di esplorazione e di ricerca, non sta solo nel fare vedere ciò che colpevolmente non è stato visto dall’Occidente bianco, o nell’utilizzare criteri di inclusività o nel consentire a ciò che è estraneo/ straniero di essere ammesso, di farne parte. Piuttosto, l’idea di straniero che Pedrosa aggancia a diversi livelli di soggettività e di esperienze, consente, al di là di tali intenzioni, di fare emergere aspetti latenti come già era stato per Il latte dei sogni di Cecilia Alemani o per Il Palazzo Enciclopedico di Massimiliano Gioni. E, alla fine, anche di avanzare qualche domanda, una fra tutte: straniero per chi?
La Biennale: luci e ombre
Con luci e ombre, più ombre al primo sguardo e luci da mettere a fuoco solo dopo riflessioni approfondite, la mostra perde in spessore quando guarda agli “artistas populares” e li inserisce in modalità espositive a loro, per l’appunto, estranee, aspetto che Kassel aveva superato scegliendole con le comunità di appartenenza. Qui, invece, si vede ancora un atto mainstream, duchampiano nell’attribuzione di una patente d’arte, persino usurato se confrontato con il concetto di “artista in ognuno di noi” che Beuys aveva definito al di fuori di modelli e in linea con una concezione responsabile dell’arte nell’epoca globale, non più museale bensì antropologica. Funziona, invece, lo sguardo esercitato sulla storia, anche se non sono pochi quelli che sostengono che troppo passato non giovi al format Biennale, ma è proprio la possibilità di applicare differenti modelli interpretativi che ci ancora al presente. E senza bisogno di scomodare Foucault, quando dice che cambiando il punto di vista spostiamo la comprensione verso un’organizzazione diversa dei fatti. Insomma, dal passato possiamo assumere posizioni generative che automaticamente aprono e includono e probabilmente per questo da qualche anno il siparietto storico è diventato necessario.
Sul questo fronte, Pedrosa offre due soste, ai Giardini una sugli astrattisti delle altre latitudini, forse in ritardo rispetto a quelli europei (ma anche qui andrebbe approfondito il punto da cui sono partiti) e l’altra all’Arsenale su Lina Bo Bardi, artista, architetta, designer, sul suo lavoro per il Museu de Arte de São Paulo (riproposto nei cavalletti di vetro, i pregevoli glasses easles) e con lei su quanto intorno a quegli anni documenta di diaspore, di storia locale o di “antropofagia”, suggerisce lo stesso Pedrosa. Comunque, utile per chiedersi se il Modernismo abbia mantenuto un carattere solo vistosamente europeo.
Straniero chi? Straniero per chi? Dicevamo all’inizio. Domande che trapelano in alcuni artisti, dai premiati Mataaho Collective, Karimah Ashadu, La Chola Poblete, ai MAHKU, a Frieda Toranzo Jaeger, quando argomentano di un Sud e di un Nord del mondo in cui ci si può identificare come si vuole, anagraficamente, politicamente, culturalmente, religiosamente tra le polarità del nostro tempo, intercettando rotte di migrazione e combattendo classismo, razzismo e intolleranza. A riguardo, quando la questione si fa politica, imprescindibile risulta il prezioso Disobedience Archive di Marco Scotini, strategicamente e anche topograficamente centrale nel percorso espositivo. Tuttavia, se si parla dell’artista straniero non si può non parlare dell’artista che è sempre stato uno straniero in patria, ovunque e in ogni tempo, l’estraneo, lo strano, il queer. E allora, nuovamente, straniero per chi, se poi l’artista da sempre è straniero al mondo che incarna e ritrae? Su questa faglia, su questo scostamento, su questa latente condizione, la mostra resta bloccata sull’etnicità e non detta una rotta.
Biennale di Venezia: i padiglioni nazionali
Nei padiglioni nazionali, tale gradazione viene accolta e trova migliori approdi dove viene dismessa la bandierina identitaria e il tema dello straniero riecheggia su altri piani. Sia nel caso degli “stranieri” in patria, i nativi con Jeffrey Gibson nel padiglione americano, gli aborigeni con Archie Moore nel padiglione australiano (meritato Leone d’oro), sia nel caso di stranieri ospiti. Molti gli esempi: il collettivo di artisti congolesi (CAPTPC) nel padiglione olandese, gli ucraini Opens Group nel padiglione polacco con i suoni e le facce della guerra in corso, la russa Anna Jermolaeva nel padiglione dell’Austria. Struggente il suo Lago dei cigni con ballerine live, che ribaltano pratiche e retoriche di regime in un potente sogno di libertà.
Marilena Di Tursi
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