La Biennale ha ancora un punto di vista occidentale. E i Leoni lo confermano
In una mostra in cui i Giardini vincono sull’Arsenale, quale è il paradigma che attraversa il percorso espositivo? Cosa si poteva fare per mettere maggiormente il visitatore nelle condizioni di comprendere il progetto?
Anch’io sono straniera ovunque. Ma soprattutto mentre percorro l’Arsenale in questa Biennale d’arte che celebra l’estraneità come valore a cui aggrapparsi per capire un mondo esploso, spiegazzato, sfaccettato. Troppi nomi sconosciuti, troppe tecniche che il mio ragionare da intellettuale bianco relega nel mondo dell’artigianato, troppi miti che non conosco e figurine fin troppo riconoscibili, troppi linguaggi per me naif se non folklorici (sempre per i miei vizi di pensiero eurocentrico).
La mostra di Pedrosa ai Giardini
Eppure, ai Giardini mi ero sentita a casa, riconciliata con il curatore Adriano Pedrosa che aveva annunciato una mostra internazionale con forte presenza di manufatti, arte tessile e intere famiglie di artisti/artigiani – cosa che mi aveva fatto avvicinare al Padiglione Centrale con scarse aspettative. Era stata una sorpresa, invece, vedere come il tutto si articolava in temi e stanze che aiutavano la mia comprensione di visitatrice europea, arrugginita su categorie di pensiero che ancora puzzano di Novecento, avanguardia e concettualizzazione dell’arte.
A una sala dedicata all’astrazione seguiva una interamente riempita di ritratti disposti a quadreria; da un focus sulla pittura queer si passava a una stazione politica con video che sconfinavano nel reportage. Oasi monografiche si proponevano in forma di mostre o installazioni tematiche come l’imperdibile “Museum of the Old Colony” di Paulo Delano che racconta per immagini cinque secoli di dolorosa storia coloniale di Porto Rico. O la bellissima sala di Giulia Andreani (che non conoscevo, ammetto) dalle grandi tele dipinte in grigio di Payne che parlano degli albori del femminismo dialogando con un capolavoro dell’art brut “Crucifixion of the Soul” del 1936 ad opera dell’artista autodidatta Madge Gill. Oppure le poche e intense foto di Claudia Andujar (lei sì che la conoscevo!) che con un bianco e nero metafisico rispondono ai disegni tanto infantili quanto simbolici degli artisti e sciamani Yanomami, tribù che diventa fonte e ispirazione del suo complesso lavoro.
La Biennale all’Arsenale
Questo incedere organizzato mi faceva sentir parte di un mondo complesso e mi aiutava a capirlo. Poi all’Arsenale si è confuso di nuovo tutto. Nel trionfo di colori e di tecniche, tra Afriche, Americhe, Antipodi l’universo policromo allestito da Pedrosa, mi balla davanti agli occhi.
“Se tu fossi sudamericana capiresti”, mi dicono due persone a me vicine che in Sud America vivono.
Forse. Ma non dovrebbe un curatore fornirmi gli strumenti per orientarmi anche se son nata a Roma, città che della storia imperiale occidentale è simbolo; anche se, sono cresciuta in un paese Nato e ho studiato su testi imbevuti di cultura bianca e dominante?
Questi strumenti non li trovo. Le etichette si susseguono come le opere e i nuclei storici (pessimo quello che ripropone dipinti di pittori italiani espatriati dove si salvano solo gli splendidi display di Lina Bo Bardi) non sono facilmente distinguibili dai lavori moderni e contemporanei
La verità è che alla fine mi rifugio in ciò che conosco come l’Archivio della disobbedienza che incontro nella prima metà del percorso. È un atlante video che raccoglie immagini delle azioni, dei riots, delle pratiche di controinformazione e resistenza che vanno dai problemi di gender a quelli climatici o sociali. L’ha curato Marco Scotini con la sua ormai provata capacità di metter in scena gli archivi e vale una lunga sosta. Lo stesso posso dire del lavoro di Bouchra Khalili che in una installazione multischermo registra il movimento di migranti sulle mappe geografiche, mentre il protagonista narra con voce fuori campo, la sua storia tappa per tappa. Ma nonostante il nome nordafricano Bouchra Khalilu ha studiato cinema alla Sorbona e arte all’Ecole Nationale Superieure di Paris- Cergy , è ovvio quindi che non faccio fatica a fermarmi e abbracciare con simpatia il suo lavoro. Parliamo lo stesso linguaggio.
Il problema, dunque, non sono queste opere, né i film o video ben girati che punteggiano il percorso e che arrivano da cineasti magari di seconda o terza generazione di immigrati reduci da ottime scuole cinema di Parigi o Londra.
Il pastiche geografico alla Biennale
Il problema sono i paesaggi e i villaggi dipinti su lino da meticolosi talenti aborigeni o guatemaltechi; sono i collettivi di donne autodidatte che ricamano tessuti con le lane, oppure le ignote artiste cilene che disegnano sacchi di iuta o le geometrie tessili africane che facilmente si confondono con bellissimi tappeti. Il problema è il pastiche geografico mi impedisce di capire la differenza fra un’arte tessile centroamericana e una africana. Eppure tra tecniche, culture, miti…. qualcosa ci sarà per separare e costruire una catalogazione, una cronologia, una sistematizzazione di tutto questo.
Quale paradigma insomma attraversa questa allegra, vivace e colorata carrellata lunga un Arsenale? Cosa rimane alla fine di un percorso se non riesco a trasformarlo in una esperienza di cultura e di storia? É colpa mia? O di chi non mi mette in grado di metabolizzare, elaborare un pensiero e mi lascia solo l’opzione di cedere a un’accettazione passiva o peggio all’unica categoria che mi resta: la domanda se mi piace o non piace…?
I Leoni D’Oro alla Biennale
Eppure, non mi sento sola ad avere questi dubbi. In fondo mi conforta notare come la rivendicazione di questa cultura artigiana e popolare che l’arte maiuscola ha reso “straniera ovunque” non ha fatto breccia nel cuoredella giuria.
Non è di certo naif la sofisticata Anna Maria Maiolino, né Karimah Ashadu, origine nigeriana ma nata a Londra che non a caso ha vinto il Leone d’Argento con un video sui mototaxi di Lagos realizzato dopo essersi formata però al Chelsea College of Art. Ed è difficile catalogare come artigianale il lavoro del Mataaho Collective con quella perfezione di design e la forza strutturale di una architettura.
Ma soprattutto è da anni che di tanto in tanto l’Australia porta nel suo padiglione la puntiforme pittura aborigena, eppure l’unica volta che conquista un meritato Leone d’Oro è proprio nella Biennale dove il suo artista Archie Moore (discendente dei popoli kamilaroi e bigambul), crea un’installazione d’impianto concettuale dove non c’è traccia di spontaneità. È un inventario dalle migliaia di nomi di antenati tra quelli vissuti nei 65 mila anni precedenti alla “scoperta” dell’Australia, che con grande rigore formale più forte impatto visivo ed emotivo non vuole affatto rivendicare la creatività indigena, ma punta invece a ricostruirne la Storia.
Alessandra Mammì
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