Ma la Biennale non dovrebbe essere una grande rassegna del deja vu da museo
Da quattro anni la Biennale si è trasformata in un gigantesco redde rationem degli esclusi, con buona pace degli artisti ai quali invece interessa porre delle domande su un presente sempre più complesso e contraddittorio
Sono 331 gli artisti presenti a Stranieri ovunque/Foreigners everywhere, la 60° edizione della Biennale arte, curata da Adriano Pedrosa, primo curatore sudamericano e queer nella secolare storia dell’istituzione veneziana. Cento in più dell’edizione precedente, Il Latte dei sogni, curata da Cecilia Alemani nel 2022, e ben 252 in più rispetto a May we live in interesting times di Ralph Rugoff nel 2019. Una Biennale pre-Covid, che prefigurava i “tempi interessanti” – mai titolo fu tanto profetico! – con artisti viventi provenienti dal mondo intero, portatori di messaggi legati al presente e al futuro con opere significative e spesso assai inquietanti. Poi venne il Covid, e questa tendenza “futuribile” sembra essere stata sostituita da ampie e articolate rassegne di taglio museale, dedicate a quelle figure che la storia dell’arte mainstream aveva dimenticato: le donne con Alemani e gli outsiders – provenienti soprattutto dal sud del mondo – con Pedrosa.
Tra Il Latte dei Sogni e gli Stranieri Ovunque
Due progetti molto (troppo?) simili, con scritture curatoriali e impianti scientifici adatti per grandi rassegne tematiche proposte da musei internazionali come la Tate, il Pompidou o il Moma, alle quali si ispirano per quantità di opere presenti, nella grande maggioranza eseguite nel corso del Ventesimo secolo da artisti scomparsi (il record lo ha raggiunto Pedrosa, con il 55% del numero totale) o comunque sconosciuti e mai invitati prima alla rassegna veneziana. Così, sono quattro anni che la Biennale si è trasformata in un gigantesco redde rationem degli esclusi dal sistema dell’arte occidentale, con buona pace degli artisti ai quali invece interessa porre delle domande su un presente sempre più complesso e contraddittorio: ai Giardini non se ne trova traccia, mentre all’Arsenale le proposte interessanti vengono letteralmente sommerse in un percorso dove emergono le sezioni “storiche”-per altro assai ben curate- degli Italians Everywhere e del Disobedience Archive di Marco Scotini. Rare ma incisive alcune installazioni firmate da artisti come Bouchra Khalili, Daniel Otero Torres e Anna Maria Maiolino, oltre ai disturbanti video VOID di Joshua Serafin e Torita-encuetadadi Elyla, ma l’impressione generale è che questa Biennale scelga di non parlare del presente ma piuttosto di riscrivere il passato. Nulla di male, ma siamo lontani anni luce dalla memorabile All the world’s futures del compianto Okwui Enwezor, con 159 opere realizzate per l’occasione.
La mostra di Pedrosa ai Giardini e i padiglioni
Ai Giardini aleggia un senso di déjà vu e per cogliere letture del presente (che evidentemente non sono tra le preoccupazioni principali di Pedrosa) dobbiamo rivolgerci ad alcuni padiglioni nazionali. Tra i più interessanti segnaliamo la Polonia (Repeat after Me II del collettivo ucraino Open Group), la Gran Bretagna (Listening All Night to the Rain di John Akomfrah), la Nigeria (Nigeria Imaginary ), l’Egitto (Drama 1882 di Wael Shawky ), la Serbia (Exposition Coloniale di Aleksandar Denić), la Germania (Yael Bartana ed Ersan Mondtag) e il poetico progetto di Massimo Bartolini Due qui/Two here nel nostro Padiglione Italia, uno dei migliori degli ultimi anni. Da non perdere il padiglione della Santa Sede Con i miei occhi, una collettiva di otto artisti internazionali, curata da Chiara Parisi e Bruno Racine negli spazi del Casa di detenzione femminile della Giudecca, mentre il vero capolavoro tra gli eventi collaterali è City of Refuge III, la mostra di Berlinde De Bruyckere nella Basilica Palladiana di San Giorgio Maggiore. Sculture e installazioni che raccontano in maniera perfetta la capacità dell’artista belga di unire il passato e il presente in una dimensione sacrale e meditativa insuperabile. Come direbbero i francesi, Berlinde, chapeau.
Ludovico Pratesi
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