Il genio è plurale. La grande mostra di Julie Mehretu a Venezia
Le grandi dimensioni si legano, nella tradizione della pittura, a temi politici. Così anche nelle opere di Julie Mehretu a Palazzo Grassi, al centro di una mostra che coinvolge anche lavori di David Hammons, Tacita Dean e Paul Pfeiffer
L’astrazione si fa politica nell’opera di Julie Mehretu (Addis Abeba, 1970). Una pittura magnetica, quella dell’artista etiope, che esibisce le sue multiformi declinazioni cromatiche, tecniche e dimensionali nella mostra Ensemble, allestita sui due piani superiori di Palazzo Grassi a Venezia e curata da Caroline Bourgeois.
Una mostra che si dichiara fieramente plurale, a partire dal titolo e proseguendo nella selezione di artisti che Mehretu ha invitato a partecipare al suo fianco e concludendosi (o ricominciando?) nell’intensa sovrapposizione che abita le sue opere. Tutto sembra affermare che la creazione non può mai essere individuale: è il frutto, come ogni cosa d’altronde, degli incontri, delle contaminazioni, degli intrecci, dei sensi più e meno lati della parola “amplesso”.
Julie Mehretu, tra astrazione e architettura
Le opere di Mehretu presentate a Palazzo Grassi coprono circa un quarto di secolo: l’assenza di un criterio cronologico nell’allestimento, se da un lato può generare confusione, permette dall’altro, nel simultaneo confronto di opere di diversi periodi, di prendere atto della varietà pittorica dell’artista, la cui pratica si arricchisce progressivamente del colore e si libera dell’aderenza all’infrastruttura grafica che caratterizzava le prime opere. Il substrato pittorico dei dipinti realizzati fino alla metà degli Anni Dieci del secolo corrente, infatti, presenta un disegno tecnico la cui estrema precisione è controbilanciata dalla violenza delle pennellate sovrastanti, sempre (o quasi) nei toni del nero. Mehretu spiega così la sua inclinazione al disegno architettonico: “Credo che l’architettura rifletta le macchinazioni della politica e per questo mi interessa in quanto metafora di quelle istituzioni. Non considero il linguaggio architettonico una semplice metafora dello spazio. Si tratta di spazio, ma anche di spazi di potere, di idee di potere”. L’opera Chimera (2013) è in questo senso paradigmatica. Le sottili linee del rendering architettonico non disegnano più degli edifici riconoscibili, come accadeva nelle opere precedenti, bensì le loro rovine: quelle dei palazzi-bunker di Saddam Hussein a Baghdad, bombardati dall’esercito americano. In Chimera, tuttavia, l’artista riflette anche sul corpo. E lo fa inserendo le impronte di mani, bocche, lingue, gomiti – in un chiaro rimando alla pratica di David Hammons, uno degli artisti che Mehretu ha voluto inserire nella sua mostra veneziana – ma anche richiamando (attraverso le zone d’ombra e di luce della superficie pittorica) i contrasti e le cromie di un corpo tumefatto, in una evocativa sovrapposizione tra violenza militare e fisica, tra bombe e lividi. La corporeità è al centro anche delle pratiche di altri artisti invitati da Mehretu: Paul Pfeiffer, per esempio, scompone una riproduzione lignea del torso e degli arti di Justin Bieber rendendola così sovrapponibile alle raffigurazioni scultoree del crocifisso, giocando sull’ambiguità fra venerazione della celebrità e della divinità; anche le tre sculture (o, per usare le sue parole, i “personaggi”) di Huma Bhabha riflettono un’idea di devozione, che tuttavia non è mediatica né ecclesiastica, bensì totemica e tinta di nuances fantastiche, mostruose, aliene: il corpo diventa così un’essenza evocativa, tanto nei materiali di cui si compone (dal sughero all’argilla, dal bronzo alle ossa animali) quanto nella sua dimensione esperienziale, che privilegia la vista come l’olfatto.
Le opere di Julie Mehretu a Palazzo Grassi
La pittura di Mehretu è peculiare non tanto per le sue configurazioni formali – che possono ricordare quelle di certo Espressionismo Astratto americano per la loro tensione tra libertà del segno e senso della composizione – bensì per il suo processo di genesi, il cui risultato può essere davvero apprezzato esclusivamente dal vivo. Le superfici levigate e dall’aspetto cerato sono l’esito di continue stratificazioni di colore e di tecniche (dalla fotoincisione all’acquaforte, passando per la puntasecca e ovviamente la pittura), che rendono la gestazione delle opere particolarmente lunga. Una pluralità di tecniche che torna nei video e nelle sculture degli altri artisti in mostra e che, per quanto riguarda l’astrazione, trova un contraltare nelle opere tessili di Jessica Rankin, con cui Mehretu è stata sposata dal 2008 al 2014.
Le tracce architettoniche, dicevamo, scompaiono progressivamente nel corso della produzione di Mehretu, per fare spazio al colore. E tuttavia non si perde il substrato politico, che invece diviene parte ancora più integrante dell’opera e dell’astrazione: le forme e le cromie che popolano le tele di Mehretu a partire dal 2016 sono estratte da immagini di cronaca modificate digitalmente, e quindi non più leggibili. Quel che importa non è il contenuto di quelle immagini, ma la loro presenza, la loro essenza. E la loro pervasività, la loro riproduzione tanto sfrenata da offuscarne il significato anche quando ci appaiono chiaramente interpretabili. Nelle opere si confondono così fotografie di disastri naturali, guerre civili, conflitti etnici: una scelta spesso basata sulla violenza che sottende alle “cose umane”, senza cinismo e con volontà di denuncia e di trasformazione.
Emblematica è l’opera about the space of half an hour (R. 8:1) 3: se il titolo rimanda allo “silenzio di circa mezz’ora” descritto da Giovanni nell’Apocalisse in seguito all’apertura del settimo sigillo, i fantasmi che si nascondono tra il nero, il bianco, il blu e il giallo sono quelli dell’incendio della Greenfell Tower di Londra nel 2017 e delle rivolte popolari in Libano nel 2019.
Le “immagini trovate” sono anche il materiale con cui lavora Robin Coste Lewis: in mostra il video Intimacy, che raccoglie alcuni ritratti fotografici rinvenuti dall’artista nella casa della nonna materna. Gli scatti sono accompagnati dalla lettura di una poesia da lui composta e dedicata proprio a Mehretu, protagonista anche dei video di Tacita Dean.
I TRANSpaintings di Julie Mehretu in mostra a Venezia
A catturare l’occhio in maniera definitiva è però la più recente delle serie di Mehretu. Nei suoi TRANSpaintings, quanto scritto in precedenza giunge a compimento in opere che si staccano dalla parete, abitano lo spazio e ne sono modificate. I supporti non sono più le tele, ma strutture in alluminio progettate dall’artista Nairy Baghramian, presente in mostra anche con altre sculture come S’accrochant (ventre de biche) e Se levant (mauve) del 2022.
I TRANSpaintings accolgono inoltre la possibilità di una continua modifica: la loro semitrasparenza li rende suscettibili alle ombre create dal passaggio dei visitatori sulla loro superficie e alle variazioni luminose dell’ambiente circostante. Mehretu compie dunque un salto, dalla tradizione pittorica che la collega a Caravaggio e Géricault (le cui opere sono punti di partenza per due dei lavori in mostra) e la avvicina alle avventure novecentesche di Duchamp e del suo Grande Vetro. È qui, dunque, che l’ensemble raggiunge il suo livello più alto: nell’unire produzione collaborativa, dialogo spaziale e casualità, la multidimensionalità e la stratificazione presenti fino ad ora nella pittura di Mehretu escono dall’opera e si fanno legame, ambiente ed esperienza.
Alberto Villa
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