L’artista Amanda Ziemele ci parla del suo Padiglione Lettonia alla Biennale
Intitolato “O day and night, but this is wondrous strange…and therefore as a stranger give it a welcome”, il padiglione lettone alla Biennale di Venezia 2024 incrocia le suggestioni letterarie di Shakespeare e Edwin Abbot Abbot
Si ispira al famosissimo romanzo Flatlandia l’artista Amanda Ziemele (Riga, 1990), che rappresenta la Lettonia all’Arsenale della Biennale Arte di Venezia 2024. Con lei abbiamo parlato del suo padiglione, del suo lavoro e della sua idea di arte.
Perché hai scelto Flatlandia come fonte di ispirazione per il progetto del Padiglione?
Per cominciare devo dire è un affascinante racconto di fantascienza. In modo spiritoso introduce un mondo bidimensionale e i suoi limiti, rivelandone le restrizioni spaziali e allo stesso tempo sviluppando curiosità per la ricerca di ciò che raramente si conosce. Poi, il lavoro di Abbotts oscilla nella nostra percezione ricordandoci i limiti delle nostre capacità cognitive, la condizione umana in generale come parte della società e i problemi che essa racchiude. Devo dire che è piuttosto divertente e intellettualmente formativo sotto molti aspetti.
Il titolo del padiglione è O day and night, but this is wondrous strange…and therefore as a stranger give it a welcome. Richiama Flatlandia ma anche il filo shakespeariano di A Romance of Many Dimensions, in un frammento di un dialogo tra Orazio e Amleto. Abbiamo avuto una serie di conversazioni con il curatore Adam Budak, anche lui aveva già visto il mio lavoro a Riga. Questo è stato il punto di partenza. Successivamente Budak ha elaborato il mio atteggiamento nei confronti dei processi creativi e ha scelto di contestualizzare la mia visione del mondo all’interno di condizioni contemporanee più ampie. Parliamo di processi pittorici astratti subordinati alle interpretazioni degli aspetti shakespeariani, così in reazione a determinate condizioni socialmente importanti e stimolanti rilevanti oggi.
Cos’è per te la quarta dimensione, artisticamente e filosoficamente parlando?
Il tempo e la sua dilatazione rispetto alle dimensioni spaziali sono gli aspetti che suscitano la mia curiosità. Con l’aiuto dell’immaginazione, fondendo il pensiero con la pittura, si apre un potenziale per incontrare nuove qualità, quando si cercano possibilità di espandere la natura statica delle dimensioni spaziali che descrivono le dimensioni o le posizioni degli oggetti nello studio e il mondo quotidiano che ci circonda. Qualche mese fa ho visitato Venezia per conoscere lo spazio. Ho stabilito un rapporto con lo spazio come un attore con il proprio agente. Si potrebbe dire che sto effettivamente collaborando con lo spazio, tramite otto dipinti di grandi dimensioni che percepisco come creature viventi. Nel contesto della mia mostra, lo spazio espositivo viene trasformato in uno spazio abitato, attraverso le pitture, che stanno cercando il loro equilibrio e rimarranno lì per un po’, mettendo in discussione le regole della gravità e puntando al concetto di unità. Cercano di affrontare la situazione allungandosi, sporgendosi fuori dal piano, curvandosi, nascondendosi o scivolando, in un certo senso stanno sviluppando nuovi muscoli per familiarizzare con i nuovi ostacoli. Infine, immagino che la quarta dimensione non sia quella finale poiché i fisici dicono che ce ne sono almeno altre dieci che dovremmo considerare.
Come descriveresti la tua pratica artistica?
Mantengo la mia pratica artistica aperta all’indagine. Lo considero un processo di negoziazione di determinati contesti attraverso l’atto pratico della pittura, lavorando con il materiale reale. Il contesto situazionale è il qui e ora: lo spazio nel mio studio, o allo stesso modo lo spazio a Venezia. Il contesto culturale è ciò che costituisce i vari discorsi che circondano il mio lavoro. Di conseguenza, i miei interventi artistici negli spazi espositivi sono mediati in modo umoristico e talvolta paradossale. Tuttavia, sono sempre consapevole che alcuni strumenti culturali come i pennelli, i colori e le tele fanno parte della tradizione costruita, quindi cerco anche di mettere in discussione tali tradizioni. Un altro aspetto importante da notare nella mia pratica è la mia convinzione che io, Amanda, sto collaborando con ogni soggetto coinvolto nel processo creativo, sia esso una tela, una pittura, un pennello, uno spettatore invitato a prendere parte all’avventura, una finestra a Venezia, o una tazza di caffè al mattino. Pertanto, le mie tele si sono espanse fino a diventare esseri quasi reali.
Credi nel ruolo dell’arte per creare una nuova mentalità inclusiva? E come?
Sì. Percepisco l’arte come un parco giochi e un lavoro scientifico allo stesso tempo. Un luogo dove sperimentare in modo creativo, assorbendo l’ambiente circostante e percependo gli ostacoli con gli occhi ben aperti quando si mettono in moto determinate idee alla ricerca di soluzioni formali adeguate. Allo stesso tempo è importante guardare ai nostri strumenti in modo attento e critico.
Quando dipingo, reagisco mentalmente ed emotivamente ai metacontesti di cui tutti facciamo parte. Direi che nel mio processo creativo reagisco ai contesti collettivi e allo stesso tempo situandomi costantemente e guardando cosa si può fare con il mezzo della pittura in una condizione che va oltre il mezzo stesso.
Credi che l’arte contemporanea, in un momento in cui la tecnologia sembra prevalere anche nella creatività, dovrebbe ritornare al metodo “tradizionale” di dipingere?
Presumo che ogni artista sia libero di scegliere il mezzo con cui tradurre le proprie idee nel contesto desiderato. Come sappiamo ogni mezzo ha le sue qualità. Pertanto non penso che dovrebbero esserci gerarchie quando si pensa alla forma della creazione di significato. Penso anche che la lingua determini il modo in cui pensiamo e comunichiamo. Percepisco la pittura come una delle condizioni umane fondamentali che risale alla preistoria, accanto alla scrittura, al fare musica, danzare, dormire o cucinare.
Niccolò Lucarelli
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