Materia e spazio tra luce e colore. Intervista all’artista Regine Schumann
Dalla scelta del titolo alle nuove sperimentazioni sulle complesse dinamiche che coinvolgono materia, luce e osservatore, ci siamo fatti raccontare dall’artista tedesca, in mostra a Milano, la sua ricerca
L’emotività del plexiglass fluorescente esplora il potenziale simbolico del colore nelle opere di Regine Schumann (Goslar, Germania, 1961) in mostra alla Dep Art Gallery di Milano fino al 6 luglio 2024. L’esposizione, a cura di Alberto Mattia Martini, è la terza personale dell’artista in galleria e presenta, attraverso 20 opere, una ricognizione sulla sua produzione fino ai lavori più recenti. Dalla scelta del titolo Iris alle nuove sperimentazioni sulle complesse dinamiche che coinvolgono materia, luce e osservatore, ci siamo fatti raccontare da Regine Schumann la sua ricerca.
In che modo la mostra personale Iris ripercorre la tua produzione artistica fino alla recente serie Corners?
Il mio lavoro è una ricerca continua e costante attorno al colore, alla luce e alle loro potenzialità espressive. Il fulcro di questa ricerca non è mai cambiato, da sempre infatti ciò che mi affascina è sottoporre le mie opere a differenti fonti luminose. Dalla luce naturale a quella artificiale, fino alla più suggestiva blacklight, i miei lavori interagiscono con queste variazioni di luce sprigionando effetti di colore, di ombre e di superfici sempre differenti. Ciò che si è evoluto nel tempo è stata la ricerca sui materiali e sulle forme. I lavori più recenti, come quelli che presento nella mostra “IRIS” sono estremamente diversi da quelle che ho realizzato per la prima mostra alla Dep Art Gallery nel 2018 o per quella del 2021. Le superfici e i colori entrano maggiormente in connessione con l’ambiente, sono più delicati e riflessivi e, in un certo senso, innescano una connessione intima con chi le guarda in quel luogo e in quel preciso momento. La serie Corners nasce da un caso che è diventato, per me, un’occasione per riflettere su un nuovo elemento. L’angolo di un lavoro si è rotto durante un trasporto e sul momento è stato devastante. Ma questo mi ha portato a vedere le potenzialità di un elemento al quale non avevo mai prestato particolare attenzione. La trasparenza, le ombre e le forme che sviluppo nella serie Corners sono visibili in qualsiasi momento, ma mutano come tutti i miei lavori. Mi piace pensare, in fondo, che una perdita ha dato vita a qualcosa di nuovo, a una svolta nel mio lavoro.
Da dove viene la scelta del titolo Iris? Quale significato assume in relazione alle tue opere?
Il titolo della mostra nasce dalle conversazioni con il curatore Alberto Mattia Martini. Iris, in inglese, significa iride e nella mitologia greca richiama la messaggera degli dèi e personificazione dell’arcobaleno, considerato un ponte tra cielo e terra che unisce mondi diversi. Alberto Mattia ha notato come nei lavori il colore e la luce, qualsiasi essa sia, si fondono in un tutt’uno, superando quella che è la percezione “reale” dell’oggetto. Le mie opere immergono l’occhio dello spettatore in una dimensione altra, senza limiti di tempo e di confini per lo sguardo. Creano una connessone tra la mera parte fisica del plexiglass di cui sono composte e la parte immateriale data dall’incontro con la luce. Quello che si instaura è un dialogo costante tra l’irradiazione cromatica del colore e l’iride (iris in inglese) di chi osserva. Ciò che ne scaturisce è un’esperienza visiva unica, che genera stupore in chi guarda e strizza l’occhio al mistero e alla fascinazione. Il caso ha voluto poi che Iris sia anche il nome di mia sorella, il che ha reso tutto molto più personale!
Quando hai iniziato a realizzare a questi “scrigni luminescenti”? Da dove viene l’ispirazione?
Già da bambina vivevo in una sorta di mondo fantastico e avevo una vera passione per l’arte. Mio padre era un minatore e non era molto contento del mio desiderio di intraprendere una carriera artistica. Nonostante le sue resistenze alla fine mi sono iscritta alla Hochschule für Bildende Künste di Braunschweig, seguendo il corso del pittore Roland Dörfler. Qui ho potuto finalmente approfondire la mia passione, che ho scoperto essere il colore. In quel momento ho incanalato la mia creatività in un numero infinito di tele e quadri astratti, con combinazioni di colori ad alto contrasto. Successivamente, mi sono resa conto che l’infanzia passata a stretto contatto con il mondo della miniera aveva fatto nascere in me un profondo desiderio di luce. Da qui nasce quella voglia costante, che ha attraversato tutta la mia carriera, di realizzare delle opere che siano in grado di interagire con la luce e trasformare lo spazio con il colore. Nel 1990 ho vinto una borsa di studio di un anno per studiare in Italia e qui sono entrata in contatto diretto con la storia dell’arte italiana dove, nei secoli, il colore e la luce sono stati i protagonisti assoluti. I primi veri lavori in plexiglass fluorescente risalgono a circa 25 anni fa, anche se le prime sperimentazioni sono della fine degli anni ‘90. Erano opere molto più semplici e bidimensionali che si sono poi evolute nel tempo. Sono consapevole che la mia ricerca artistica ha trovato un posto speciale nella light art grazie alla qualità della fluorescenza, ma sono curiosa di trovare sempre nuove idee.
Qual è il tuo metodo di lavoro? Come arrivi a concepire gli ambienti cromatici delle opere, tra materia ed effetti luminosi? Lavorando con il plexiglass fluorescente, un materiale industriale che necessita di un luogo e un tempo di produzione ben definito, le tempistiche di produzione sono dilatate. Negli anni ho voluto approfondire le tecniche di realizzazione e sono entrata in contatto diretto con chi lo produce questo materiale per realizzare delle finiture specifiche per i miei lavori. Un esempio è la serie Colormirror, che ha una superficie specchiata e una velatura di pigmento che cattura e restituisce la luce in un modo unico. In più ha il pregio di riflettere l’osservatore all’interno dell’opera, portando a compimento quella connessione che cerco, tra chi guarda i miei lavori e il colore che essi irradiano. In generale, parto dai disegni e dai campioni di materiale che ho in studio. Progetto la forma, le dimensioni e la finitura di ogni opera, poi provo a fare degli accostamenti cromatici, degli esperimenti, finché non raggiungo il risultato ideale sotto tutti i punti di vista. In questo modo ho già chiaro in mente quale sarà il risultato finale di ogni singolo lavoro, ancora prima che questo esca dalla fabbrica in cui viene prodotto. Lo stesso vale per una mostra, studio la piantina della galleria e immagino come bilanciare le opere, è importante che lo spazio abbia il suo ruolo quando entra in contatto con un mio lavoro. Deve accogliere l’opera ma soprattutto deve accogliere la luce, naturale e/o artificiale. Spesso progetto le mostre completamente da remoto, perché so come interagiscono i miei lavori con la luce, tra loro e con lo spazio, ed è sempre molto affascinante scoprire alla fine, quando tutto è installato, che avevo ragione!
Progetti futuri, prossimi appuntamenti…
Antonio Addamiano, Direttore di Dep Art Gallery, dato il grande successo della prima settimana di mostra ha deciso di prorogare Iris fino al 6 luglio. A fine aprile sarò invece in Belgio con una personale a Knokke, mentre in cantiere c’è un progetto in Turchia che si svolgerà tra Istanbul e Bodrum. In autunno sarò impegnata tra Madrid e il Giappone, prima con la galleria Rafael Perez Hernando (con la quale ho appena terminato anche un solo show ad ARCO) e, successivamente, con Taguchi Fine Art per una mostra che si terrà a ottobre tra Tokyo e Kyoto. Sempre con la mia galleria giapponese e in collaborazione Dep Art Gallery parteciperò con un solo show alla fiera di Kyoto Art Collaboration.
Caterina Angelucci
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