La Biennale di Venezia del 2024 è una biennale neo-modernista militante
Stranieri ovunque è un focus sul sud globale. Ma chi si aspetta un mood fatto di visionarietà ‘altra’ resta piuttosto spiazzato
L’arte non è fatta solo di contenuti referenziali. Anzi. Oltre il cosiddetto ‘messaggio’ c’è il linguaggio. Una verità, questa, che vale anche per le mostre, e che resta dirimente tuttora, pur in un’epoca di ritorno alla ‘realtà’ e alla narratività. Stranieri ovunque, la mostra internazionale veneziana by Adriano Pedrosa, non fa eccezione. Anch’essa dice cose che bypassano il letteralismo del concept. Vale la pena soffermarsi su queste. Partiamo da una parola, ‘modernismo’. Pedrosa la usa di continuo nel suo discorso di presentazione, quasi fosse un intercalare. Di certo è una sua ossessione. Ma soprattutto, quella parola si rivela perfetta per approfondire la mostra al di là del claim. Sì, perché alla prova dei fatti Stranieri ovunque si dimostra analizzabile proprio in tal senso, quale apologia del modernismo. Per il fatto di proporre come idealizzato e auspicabile uno specifico indirizzo linguistico, inquadrabile come neo-modernista.
La Biennale: l’idea di fondo del curatore Pedrosa
Vediamo allora com’è Stranieri ovunque. Diciamolo subito: lo sguardo è sul sud globale, ma chi si aspetta un mood fatto di visionarietà ‘altra’ resta spiazzato. Pedrosa parte da una precisa idea di fondo. Questa, che negli sviluppi artistici del secolo scorso ci sia stata più convergenza di quanto si tende a pensare tra nord e sud del mondo, in particolare per quanto attiene alla voce ‘modernismo’. L’assunto è che un tale indirizzo è ancora tra noi, soprattutto nel sud globale, laddove si è concentrata la sua attenzione. È questo l’‘altro’ messaggio di Stranieri ovunque. La mostra si caratterizza per due macro-attitudini. La prima è il suo anti-magismo. Qui siamo agli antipodi rispetto a Les magiciens de la terre, leggendaria mostra del 1989 che ‘apriva’ al sud globale soprattutto in termini di shock culturale. Stranieri ovunque ne è il contraltare. Se quella era un po’ un gabinetto delle meraviglie, questa non lo è per nulla. Nel sud globale di Pedrosa non ci sono magiciens. Nonostante gli artisti sciamani presenti, il mitico e il magico ne sono sostanzialmente estromessi.
Il pensiero magico nelle Biennali del passato
A pensarci, c’era più pensiero magico nelle Biennali curate da Massimiliano Gioni e Cecilia Alemani, rispettivamente sugli outsider in senso psichico e in lode del Surrealismo, che in questa sul mondo non-occidentale. Qui si va in direzione opposta. Al punto che i lavori più afro nel senso del magico sono di Susanne Wenger, un’austriaca trasferitasi in Nigeria.
Anti-magismo quindi. Per un verso. Per l’altro, chi è stato fatto fuori da Pedrosa – sempre in ottica di ‘modernismo’ militante – è Marcel Duchamp, con la sua dottrina del ready-made e dell’interazione fisica col fruitore. L’effetto è impressionante: Stranieri ovunque è la meno ‘installativa’ tra tutte le mostre internazionali viste alla Biennale di Venezia negli ultimi vent’anni, ma sicuramente anche oltre. Piacerebbe da matti, e non è una battuta, a Clement Greenberg. Questo perché è assente, o quasi, la tridimensionalità oggettuale, e latita pure quella mimetica. Di contro, flatness e astrazione sono ovunque, a partire dai (tanti) dipinti, quasi tutti bidimensionali, ritratti compresi. Per dire, quelli del brasiliano Dalton Paula – splendidi – sembrano discendere direttamente da Jasper Johns.
L’allestimento della Biennale di Pedrosa
Anche l’allestimento è ispirato alla flatness. Nel senso che è piano, di una compostezza inusitata, museale a dir poco. Stranieri ovunque è una mostra a parete, e quel che non lo è, è comunque ben delimitato. Le (poche) sculture stanno per lo più in raggruppamenti, entro ‘isole’ rialzate. In generale non c’è il minimo rischio di urtare un’opera d’arte, di rimanere impigliati in essa o – men che meno – di scambiarla per altro. Con buona pace, appunto, del mattatore (dell’ultimo cinquantennio abbondante) Marcel. Insomma, via il magico, ma via anche l’interattivo. Ovverosia ciò che ha cambiato la storia dell’arte contemporanea di fine Novecento. Se non è ‘neo-modernismo’ questo! Si obietterà: l’astrattismo si limita ai pittori storici, ma non adeguatamente storicizzati, esposti in una sala al Padiglione centrale ai Giardini. Non è così. E comunque quelli anzidetti sono tantissimi per una mostra del 2024. Ma soprattutto, occupano per intero non una sala qualsiasi, ma quella maggiore, la più importante di tutta l’esposizione, la sua hall per così dire. Quindi fanno da introduzione all’intera mostra, ne tracciano le linee-guida, ne costituiscono il basamento. Infatti il resto dell’esposizione non devia come impostazione.
Gli artisti della Biennale di Pedrosa
Pedrosa va a cercarsi l’astrazione anche tra gli artisti (del sud del mondo) di oggi. Per dire, l’installazione ambientale in acciaio e poliestere posta all’ingresso all’Arsenale di Mathaaho collective, un collettivo di artiste māori australiane, si ricollega direttamente alla koiné optical e all’arte cinetica fifties. Geometrici e astrattisti sono anche i – magnifici – quadri tessili dell’argentina Claudia Alárcon realizzati in collaborazione con il collettivo Silät. E belli aniconici, sebbene non geometrici, sono quelli dalle cromie squillanti, tessili anch’essi, dell’artista dello Zimbabwe Shalom Kufakwatenzi. Questo per dire che, ok, si opera in modi e forme differenti rispetto a sessanta e settant’anni fa, ma impostazione di fondo e grammatica vengono richiamate. E ancora. È vero che c’è tanta arte istoriata (pittura e non solo). Ma, anche qui, si tratta di lavori astratti de facto, perché paratattici e fittissimi, oltre che bidimensionali. Per cui la loro presenza è coerente, sul piano linguistico, con l’estetica neo-modernista cui tende Pedrosa. In proposito si vedano le – incantevoli – mappature umane, insieme istintive e cartografiche, di André Yaniki, artista e sciamano dell’Amazzonia profonda, che costituiscono il passaggio più fresco ed emozionante del Padiglione centrale ai Giardini. Oppure ci si soffermi sui ritratti collettivi dell’aborigena Marlene Gilson, così aerei e ieratici da risultare anch’essi aniconici.
La pittura nella Biennale di Pedrosa
Ma poi, a conferma di quanto detto finora, c’è il fatto che è del tutto assente, o quasi, una pittura di segno opposto, ‘pittorica’ e – per così dire – anti-modernista. Infatti quando compaiono i dipinti dell’unico rappresentante di tale estetica, il pakistano Salman Toor, questi arrivano come uno shock, come la classica eccezione che conferma la regola. Sia detto per inciso: vale la pena puntarli, perché, per paradosso, sono tra i lavori migliori di tutta la mostra. Sono posizionati in coda, nell’ultimo tratto delle Corderie. Altro dato rimarchevole è che il documentarismo vero e proprio, checché se ne dica, è poco presente. Ed è isolato, come lo sono le sculture. Gli uni e le altre vengono proposti in raggruppamenti a parte, quasi a costituire, se non dei corpi estranei, degli spin-off.
Non è finita. La mostra è zeppa di monocromi, o comunque di lavori strutturati come tali. Quelli della libica Nour Jaouda, con le loro stratificazioni di tessuti a comporre grandi arazzi, giocano chiaramente con l’essere percepiti come tali. Così come il lavoro installativo di Dana Awartani, palestinese-saudita, che nella sua narrazione di guerra buca e rammenda tessuti facendone drappi monocromatici da issare. Anche i video, super icastici, sono spesso paragonabili a dipinti monocromatici in movimento. Si vedano in particolare quelli della messicana Ana Segovia e di Joshua Serafin, artista delle Filippine, in cui si riflette sul concetto di mascolinità. Poi, c’è abbondanza di serialità, sia per le tante sequenze di lavori pressoché identici, che internamente alle opere stesse. E non manca una sorta di neo-costruttivismo, umile ma austero. Il riferimento è all’installazione del duo serbo-panamense Iva Jankovic/Antonio José Guzmam, e aquella del colombiano Daniel Otero Torres, il cui abbozzo di edificio si erge sopra un’acqua nera come la pece.
Insomma, zero caos e bizzarrie, siamo neo-modernisti. Chi cerca il bizzarro troverà pane per i suoi denti non qui, ma ai padiglioni nazionali (il camp politico dagli svizzeri, la psichedelia genderista dagli americani, il weird utopista dai tedeschi, e si potrebbe continuare per un pezzo). Ovvio, qualche eccezione c’è. Anzi, ironia della sorte, i (pochi, pochissimi) pezzi che sparigliano sono tra i più rilevanti. In questo senso si segnalano la scultura, misteriosa e commovente, raffigurante un gigantesco carro carico di anguille che protende le braccia, dell’artista māori neo-zelandese Brett Graham. E gli acquerelli oversize dell’argentina La Chola Poblete, che fondono immaginario queer e motivi religiosi in un caleidoscopico susseguirsi, di tenore postmodernista, di erotismo, estetica street e messaggio politico.
La Biennale neo-modernista
Per il resto Stranieri ovunque è quel che si diceva, una sinfonia neo-modernista declinata in chiave world. Costruita su due direttrici, una rievocativa, l’altra futuribile, collocate abbastanza distintamente l’una al Padiglione centrale, l’altra all’Arsenale. Si direbbe una mostra che anela a un nuovo decennio fifties, però globale e ascendente. Che parta, stavolta, dal sud, in una sorta di moto di ritorno volto a rinverdire ciò che fu e non è più. Il buono è che non c’è traccia di lavori furbi, questo perché il progetto è appassionato e coscienzioso. Peccato che sul piano qualitativo ci sia poco di che esaltarsi. C’è penuria di spunti indimenticabili, e qua e là si scade nel bolso e nel noioso. Sicché Stranieri ovunque, nonostante l’urgenza militante che la caratterizza, difficilmente resterà negli annali.
Pericle Guaglianone
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