Possiamo davvero comprendere l’arte di popoli a noi lontani?
Una riflessione antropologica che incrocia animismo e totemismo, sempre più rilevanti nel discorso dell’arte contemporanea ma forse impossibili da comprendere fino in fondo per il pubblico occidentale
Molte biennali e istituzioni d’arte in Occidente, di questi tempi, ospitano mostre di arte ancestrale di popoli a noi lontani. Ma quali strumenti abbiamo per comprendere realmente l’arte degli altri? È sufficiente bollare il nostro recente passato come “coloniale”, restituendo “dignità” alle identità e ai riti altrui per capirli? Quale significato attribuire alla cultura animista dei popoli sparsi nelle foreste dell’Amazzonia? Che idea farsi del totemismo degli Indiani d’America o del continente australiano?
La prospettiva occidentale sulle culture animiste indigene
Per noi occidentali che viviamo immersi in un mondo di immagini non dovrebbe essere così difficile misurarsi con un’ontologia del visivo, trovare una grammatica delle immagini che ci aiuti a comprendere le relazioni che le diverse civiltà intrattengono con il mondo che li circonda? Eppure è proprio la nostra visione da occidentali contemporanei, abituati a comprendere le immagini per analogia con altre simili, che ci oscura la vista. Nonostante le somiglianze, il loro significato profondo ci sfugge. Possiamo rimanere incantati da una certa poeticità, dall’apparente ingenuità di una maschera yup’ik che rappresenta l’inua (lo spirito o essenza) di un’ostrica, per esempio, indossata durante i riti invernali che rendevano presente l’anima della “persona-animale”, festeggiata insieme ad altre perché potessero continuare di buon grado a offrirsi ai cacciatori per permettere agli esseri umani di nutrirsi dei loro corpi. Tuttavia che cosa capiamo di loro?
L’opinione di Philippe Descola
Forse – ipotizza Philippe Descola, ex filosofo francese convertito all’antropologia – i popoli totemici, e gli animisti in particolare, hanno inventato modalità completamente diverse dalla nostra per decifrare il mondo, a partire da un allargamento dei confini della loro idea di società ben oltre la specie umana, al fine di comprendere anche il non umano, gli animali, le piante, la terra e le rocce. Descola, antropologo sui generis, allievo di Claude Levi-Strauss, approdato a una “ecologia delle relazioni”, nella conta dei popoli osservati ci mette anche noi occidentali, con la nostra ossessione per la rappresentazione. La Natura è una grande enciclopedia dalla quale le popolazioni amerindiane come anche quelle australiane attingono ciò che a loro serve, selezionando delle qualità per farne dei simboli.
Gli esseri del Sogno
I popoli totemici dell’Australia hanno molto affascinato gli etnografi dei primi del Novecento, ma anche pensatori come Freud. Gli idoli totemici sono “esseri” dotati di qualità fisiche e morali particolari, trascendono le barriere tra le specie. Qualsiasi siano le loro forme apparenti, fanno parte degli “esseri del Sogno”, prototipi primordiali che i racconti eziologici descrivono come ibridi, usciti dal sottosuolo, dalle avventure infinite, che poi ripiombano nelle viscere della terra. Hanno una funzione di guida e di protezione delle comunità e possono trasformarsi in elementi topografici, lasciando le loro tracce nel paesaggio in modo che i tratti caratteristici dell’ambiente, i luoghi d’acqua, i litorali, le colline, le rocce e i boschi portino testimonianza delle loro peripezie. Prima di sparire lasciano un seme vitale che s’incorpora negli esseri umani e non umani, rinnovando l’emanazione totemica, frutto di un “essere del Sogno”.
Totemismo e animismo
E così le qualità rappresentate dal totem si trasformano a ogni generazione, negli esseri umani, negli animali e nelle piante che a dispetto della loro apparenza, costituiscono manifestazioni della comunità, qualità estetiche e morali attraverso le quali si afferma la loro identità comune. È dunque normale, afferma Descola, che in Amazzonia o in Siberia si chieda a un animale, oggetto di caccia, di non vendicarsi, oppure si possa frustare una montagna per punirla di non essersi comportata bene, come apparentemente fece un governatore della Mongolia. Quando guardiamo gli animali, le piante, le cose, rileviamo una serie di caratteristiche (le piume, le radici, le pinne) che li differenzia e li confina a un certo ambiente o nicchia ecologica, il mare, la terra ecc. Nel 2010 Descola ha curato una mostra che ha fatto epoca, La Fabrique des Images: visions du monde et formes de la Représentation, al Musée du Quai Branly a Parigi, commentata in maniera entusiasta persino dal sociologo Bruno Latour. Le molteplici facce della rappresentazione dei popoli animisti con le loro maschere, copricapi, oggetti totemici fatti dei materiali della terra e dei mari, dal legno, alla corteccia, alle piume, fibre vegetali, pigmenti, conchiglie, denti di cane, avorio sono decifrabili se partiamo dalla loro interiorità, dalle doti morali loro attribuite. In questa visione animista del mondo viene riconosciuta a tutti gli esseri viventi un’intenzionalità e un’organizzazione sociale che vanno comprese. La differenza principale con il pensiero occidentale è che noi crediamo di essere gli unici a possedere una intenzionalità, o come viene definita dalle religioni, un’anima.
Anna Detheridge
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati