“L’arte europea? Un ammasso di cianfrusaglie”. Intervista all’artista Sergio Lombardo
85 anni e idee molto chiare sullo stato dell’arte contemporanea nel mondo occidentale. Intervista a tutto campo all’artista Sergio Lombardo, tra intelligenza artificiale, discorsi sulla pittura e critica al presente
“L’arte europea è un ammasso di cianfrusaglie legate al postmoderno. Per trovare qualcosa di buono è necessario frugare nei sacchi della spazzatura“. Sergio Lombardo, 85 anni, riconosciuto per il suo fondamentale contributo alla Pop art, è artista intransigente e solitario che si è sempre opposto a ogni forma di conformismo di carattere culturale o commerciale. Protagonista dell’avanguardia italiana, la sua ricerca metodologica appare coerente sin dalla fine degli anni Cinquanta con risultati che nelle opere più recenti lanciano una sfida all’arte digitale e persino all’Intelligenza Artificiale. Sino al 2 giugno 2024 la Galleria Comunale d’Arte Moderna e Contemporanea di Arezzo gli dedica una personale esaustiva con oltre 50 opere dalla fine degli anni Cinquanta a oggi, sostenuta dall’editore Magonza, a cura di Moira Chiavarini e Simone Zacchini, intitolata emblematicamente Una programmatica differenza. In questa intervista a Artribune Lombardo ripercorre gli aspetti salienti della sua ricerca. Senza evitare di prendere posizione nei confronti del sistema dell’arte e dei suoi colleghi della Pop.
Prima di affrontare il tuo percorso storico, vorrei chiederti cos’è la Pittura Stocastica che realizzi sin dagli anni Ottanta?
Si tratta di un’indagine che studia algoritmi matematici capaci di sviluppare forme casuali che offrono la più ampia gamma interpretativa possibile.
Qual è la differenza rispetto all’astrazione classica di artisti quali Giuseppe Capogrossi, Piero Dorazio o Carla Accardi?
Loro sono ancora legati all’espressionismo e le combinazioni che propongono appaiono soggettive, chiaramente prevedibili. Nel mio caso il procedimento è opposto. Sono uno scienziato che fa esperimenti sul pubblico. Attraverso i numeri random creo infinite combinazioni che attendono di essere interpretate. Non c’è nulla di aprioristico o soluzioni pret-à-porter. Il mio è un test di Rorschach migliorato che prevede un sistema autonomo.
La tua azione ha molti punti in comune con l’arte generativa attualmente in gran voga, come dimostra l’attuale successo di Refik Anadol.
I miei primi esperimenti in questa direzione risalgono ai primi anni Settanta quando l’arte generativa era ancora in embrione.
E come ti poni di fronte all’Intelligenza Artificiale?
La sfido e mi muovo in maniera opposta. Se l’Intelligenza Artificiale identifica la soluzione più probabilistica, più cliccata sul web e dunque tende al conformismo, al contrario io sono attratto da ciò che più si allontana dall’omologazione. M’interessa usare il cervello in modo divergente.
Il conformismo non coinvolge solo l’arte.
Credo che l’attuale mediocrità sia dovuta proprio a una tendenza generale che va verso un pensiero unico in modo da rendere tutti consumatori nell’ambito della moda, del mercato, della politica o dell’informazione.
Torniamo a un concetto a cui facevi cenno in precedenza, ovvero il ruolo del pubblico così importante nel tuo lavoro.
Sono uno psicologo che parte dalla percezione e sin dalla metà degli anni Sessanta ho realizzato opere interattive in grado di coinvolgere anche in maniera fisica il pubblico. Successivamente, con la Pittura Stocastica è stato quest’ultimo a prendere il testimone. Agli spettatori affido il compito creativo d’interpretare il mio lavoro. Mi limito a innescare il meccanismo senza per questo suggerirne un’interpretazione. L’arte generalmente ha oscillato tra l’espressionismo arbitrario e il concettualismo tautologico privilegiando operazioni narcisistiche. Io rifiuto entrambe queste posizioni. Come ti ho detto, privilegio un approccio scientifico e sperimentale.
A quale movimento storico ti senti più legato?
Sicuramente il futurismo, un movimento di arte totale che ha influenzato le avanguardie europee e americane, ancora oggi analizzato in maniera parziale e preconcetta. Il futurismo non solo ha posto la scienza e la tecnica al centro della propria indagine, ma per primo ha creato happening e performance indirizzate verso il pubblico. Basti pensare alle serate futuriste che hanno rappresentato oggetto di studio per molti intellettuali e artisti, da Allan Kaprow a John Cage.
Nell’ultimo triennio sei tornato a una tua vecchia passione, i volti e proprio ad Arezzo nel 2021 hai esposto per la prima volta nella sede delle Nuove Stanze la serie Stochastic Unpredictable Faces attualmente in mostra alla Galleria Comunale.
È un’ulteriore elaborazione della Pittura Stocastica che mi permette di giungere alla riduzione geometrica di una faccia che si può deformare all’infinito. Ovviamente, non c’è nessuna rassomiglianza o personificazione ritrattistica. Ma è il pubblico che proietta i propri contenuti per trovare analogie che potrebbe apparire anche paradossali.
E i volti ci rimandano ai tuoi cicli più famosi, quelli della prima metà degli anni Sessanta quando con Gesti tipici e Uomini politici colorati sei immediatamente diventato un protagonista della Pop art con cui in realtà non ti sei mai riconosciuto. Sebbene abbia fatto parte della Scuola di Piazza del Popolo, il mio intendimento era molto differente da quello dei miei compagni di strada. Plinio De Martiis, fondatore della Galleria La Tartaruga che a Roma era l’equivalente di Leo Castelli a New York, mi diceva che dipingevo da selvaggio. E in parte aveva ragione. Il mio scopo non era proporre opere pittoriche seducenti, ma piuttosto provocare il pubblico che doveva vedere i miei grandi dipinti verniciati di nero con la coda dell’occhio. Ciò che osservava era concepito come percezione latente subliminale con riflessi persino ossessivi. Nulla a che vedere con l’idea dell’icona tradizionale.
Tu proponevi personaggi famosi come Kennedy, Krusciov, Fanfani o De Gasperi, ma coprivi il loro volto di nero e dalle sagome emergeva solo il gesto identificativo.
M’interessava la postura, il linguaggio non verbale teorizzato da Desmod Morris solo negli anni Settanta. La Pop art andava verso un’altra direzione e non a caso già nel 1965 presi definitivamente le distanze da quell’esperienza quando avrei potuto vivere di rendita riproducendo all’infinito le opere di allora, come hanno fatto in molti, primo tra tutti Andy Warhol che giudico un espressionista.
Come proprio lui che diceva di voler essere una macchina…
Non lo era affatto. Puntava alla seduzione pittorica e coloristica delle sue immagini producendole con mille variazioni. Warhol è il prototipo di un movimento che aveva posto il mercato come centro democratico dell’estetica.
Il sistema italiano ha subito lo strapotere dell’America?
Certamente. Siamo stati una colonia culturale e ancora adesso ne paghiamo le conseguenze. Da Germano Celant a Achille Bonito Oliva, la storia dell’arte è stata analizzata in maniera parziale escludendo una parte significativa della ricerca. Molte esperienze sono state estromesse dal gioco dei potenti, come dimostra la scarsa attenzione verso l’arte programmata o l’arte cinetica. Taluni grandi artisti, poi, sono stati trascurati. Uno per tutti, Francesco Lo Savio.
Qual è oggi la situazione?
Piuttosto inquietante. Siamo di fronte a una massa di cianfrusaglie legate al postmoderno e l’Europa appare come una grande discarica. Ma, come cantava Fabrizio De André, dal letame nascono i fiori.
Alberto Fiz
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