Tenere assieme maternità e lavoro. È una sfida anche nell’arte
Curatrici, studiose, operatrici culturali, uffici stampa e soprattutto artiste. Come affrontano la sfida della genitorialità e l’organizzazione della vita di tutti i giorni in un settore precario, professionalmente instabile e molto impegnativo
Mentre comincio a scrivere questo articolo, mia figlia ha da poco compiuto undici mesi. Abbiamo già superato la fase più complessa dell’allattamento, ha messo i primi dentini, ha risposto in maniera eccellente allo svezzamento, gattona e ora si arrampica ovunque, cercando di tirarsi su. Undici mesi sembrano pochi, sembrano tanti, questi cambiamenti descritti in poche righe avvengono improvvisamente, e il genitore, tra una emozione e l’altra sempre più grandi, deve essere pronto a riorganizzare le proprie reazioni ad esse in maniera altrettanto rapida. Di conseguenza, la propria vita.
Il tempo è la chiave di volta dell’intera esperienza genitoriale, in una intersezione di piani riguardevole. Il tempo dei bambini è quello della scoperta: per l’adulto è un tempo ritrovato, dalle emozioni amplificate, le cose piccole, precedentemente erano scomparse dall’esperienza quotidiana, tornano ad essere importanti. I bimbi non conoscono l’attesa, l’orologio della loro esperienza di vita viaggia di pari passo alle loro necessità.
La maternità secondo Eugenia Vanni
Tutto rallenta, si definisce, si moltiplica. Proporzionalmente però il tempo dei genitori si assottiglia, scompaiono i vuoti, ogni minuto va riempito con un problema da risolvere, qualcosa da fare.
Tutte le donne, artiste, curatrici, operatrici culturali, che ho intervistato per questa indagine, che prima o poi diverrà un libro, hanno messo in luce questo aspetto. “La rinuncia più importante è stata quella di avere pochissimo tempo vuoto”, spiega l’artista Eugenia Vanni, “quello che si usa solo per pensare. Questo perché intanto mi sono accorta che esiste un tempo libero e un tempo non più libero: prima della nascita di Norma per me il tempo era un concetto già libero di suo. Tempo e libertà coincidevano. Non ero mai alla ricerca del tempo libero perché non ne conoscevo l’esistenza. La libertà del mio tempo era quella che mi permetteva di fare ciò che volevo e quando volevo. Lavoro e vita combaciavano perché si fondavano su principi simili, sempre rivolti a me stessa, al mio benessere e alla mia sopravvivenza”.
È possibile conciliare maternità e lavoro?
Il corpo umano è una macchina complessa e meravigliosa e dona alle donne una fonte di energia fisica e mentale che prescinde da condizioni di partenza, età, allenamento ginnico. Una roba da supereroi, alla quale compartecipano anche i compagni/e di questa avventura, che fa sì che, dopo una esperienza stremante come quella del parto, la mamma sia nelle condizioni (quasi) ottimali per affrontare la cura e l’assenza di sonno inevitabilmente immediati. E il lavoro?
Sono tornata al computer dalla maternità quando mia figlia aveva quattro mesi. Una circostanza fortunata ha voluto che lo scadere dei cinque mesi a me concessi coincidesse con l’inizio del mese di agosto, quindi, come molti hanno teso a sottolineare, il rientro è stato soft, confortato anche dal grande sostegno che ho ricevuto da tutti i miei committenti.
Col senno di poi posso dire che per fare le cose per bene, una maternità per essere realmente efficace dovrebbe durare, senza ulteriori diminuzioni di retribuzione, almeno nove mesi, per permettere a madre e bambino di costruire e costruirsi, ma anche di rendere effettiva una organizzazione quotidiana e di lavoro che nei primi mesi non è realmente possibile. Invece, nella maggior parte dei casi, si preferisce avere alla scrivania donne piene di sensi di colpa, solo parzialmente realmente “sul pezzo”, mentre la sveglia dell’allattamento suona ogni tre ore a ricordare che dall’altra parte c’è un dovere importantissimo, meraviglioso ed inderogabile.
Non è stato il mio caso: devo ammettere che – forte della comprensione dei colleghi e delle possibilità dettate da quello che oggi si chiama smart working che da (quasi) sempre è stata la cifra del mio percorso professionale e che mi ha permesso di seguire anche lavorando le fasi di crescita della mia bambina –, pur senza sostegni quotidiani da parte della famiglia, che purtroppo non vive nella mia stessa città, probabilmente non avrei resistito ulteriormente ad un prolungamento della maternità. Tornare a lavorare ha richiesto un impegno e un sacrificio e ancora una volta, una riorganizzazione, non indifferenti, ma è stato pure un piacere e una forma di realizzazione personale. Ciò non toglie che come molte, forse per tutte le donne, ci siano stati attimi nei quali alla mia testa è stato richiesto di essere su troppi fronti nello stesso momento e di risolvere dei problemi che richiedevano il dono dell’ubiquità, attimi in cui pensavo che non ce l’avrei fatta, attimi in cui ho meditato di non lavorare più. Certo, spesso l’amore infinito per la mia bambina ha oscurato tutto il resto e comunque è diventato la priorità assoluta. Ma oltre alla passione e alla necessità sono mossa, da madre di figlia femmina, dal senso di responsabilità nell’insegnarle anche nei fatti l’orgoglio di fare bene il proprio lavoro e di portare come donna un contributo alla società. Inoltre, la consapevolezza di costruire valore, non solo economico, anche per lei.
La maternità secondo Federica Forti
In tal senso sembra andare anche il racconto della curatrice Federica Forti: “organizzo la mia giornata, e le mie settimane in base agli impegni di mia figlia e aggiusto questi solo se i miei impegni professionali non mi permettono di seguire i suoi. In tal caso scatta l’emergenza tata, papà, amiche, spesso anche last second. Ho ridotto i viaggi e le inaugurazioni ad una attenta e spietata selezione che spesso mi porta nostalgicamente a pensare a quando, alle 18:00, iniziava la giornata tra gallerie, mostre, amici e chiacchiere. Non mi fraintendere, sono stata da subito resiliente e ho viaggiato ovunque con Bianca per lavoro; ricordo una riunione da Assessore (alla Cultura del Comune di Carrara, ndr) a Venezia in cui mi spostavo a piedi issando il pesante passeggino sui ponti e anche un meeting UNESCO a Cracovia in cui ero l’unica mamma con figlia da intrattenere. Però, e senza retorica, devo anche dirti che mia figlia ha stupito tutti prendendo parola alla riunione italiana delle città creative UNESCO a Torino e parlando con l’approccio, lucido e onirico al contempo, che i bambini hanno; all’epoca aveva 6 anni (ora 8)”.
La maternità comporta riorganizzazione
L’assunto a volte è che sia maggiormente desiderabile una vita scandita da una successione inesorabile di impegni ed eventi di una che richiede una maggiore razionalizzazione. E non obbligatoriamente questo è vero, se sulla bilancia si pone il peso della dispersione del tempo in situazioni talvolta non necessarie o economicamente sostenibili. Lo spiega bene la studiosa e curatrice Valentina Tanni, quando dice: “Cambiare ritmo, riorganizzare la vita, riconsiderare le priorità. Sono tutti processi che la maternità tende a innescare, e sono processi che possono essere molto benefici. Soprattutto per una persona come me, che tende sempre a prendere troppi impegni e a sovraccaricarsi di responsabilità. Avere meno tempo libero mi ha aiutata anche a capire come davvero voglio impiegarlo. C’è anche da dire, però, che ho avuto mia figlia a 39 anni; quindi, in una fase della vita in cui ero già molto predisposta alla ricerca di un ritmo diverso. Non è stato semplice e ci ho messo molti anni, ma pian piano ho rimesso le cose in equilibrio. E alla fine, questo nuovo equilibrio – una situazione in cui il lavoro invade molto meno la mia vita – si è rivelato più produttivo del precedente. Giusto per dirne una: da quando è nata mia figlia (fine 2015) ho pubblicato due libri e ne ho un terzo in cantiere. Tuttavia, ogni equilibrio è provvisorio, e anche questo verrà rimesso in discussione. Non vorrei dare l’impressione che la maternità mi abbia risolto la vita; resto la stessa persona inquieta, ansiosa e perennemente alla ricerca che ero prima”. Nel mio caso, anche durante i mesi di maternità tenevo sempre il cervello collegato: ti dicono quando lei dorme, dormi. Io, quando ovviamente era possibile nel pochissimo tempo a mia disposizione, leggevo, studiavo, partecipavo a bandi, cercavo notizie, passeggiavo e facevo lunghe telefonate mantenendo un contatto con quelle persone che sentivo più vicine umanamente e professionalmente. La lucidità che mi ha donato la nascita di mia figlia è stato un regalo che non credevo che avrei ricevuto: ho sentito di aver conquistato una nuova capacità di lettura delle cose, dei processi, una empatia con il mondo, una visione delle cose concrete della realtà e un distacco da quelle fatue, una percezione sistemica e una capacità organizzativa che mai avrei pensato di poter avere. Come scrive una delle intervistate sono ed ero fin dall’inizio un vulcano di idee. È come se improvvisamente avessi guadagnato un potenziale che forse la routine anche professionale e la stanchezza negli anni aveva sopito. Riesco a fare cose che prima diluivo nel tempo, con un senso di sintesi che non mi conoscevo. So anche dire di no, cosa che leggendo le interviste raccolte mi accomuna alla maggior parte delle intervistate. Sempre Forti spiega: “sono diventata molto più concreta e selettiva. Ho imparato il valore del mio tempo, a guardare i miei limiti con affetto ma anche con volontà di migliorarmi e soprattutto ho scoperto la pazienza e la dolcezza, anche nel lavoro”.
Il rientro al lavoro e il peso delle aspettative
Tutto bene, quindi? Sì e no. Perché a ciò che cambia fuori e dentro di te, corrisponde un contesto che non sempre di razionalizzazione, ottimizzazione e tempo ritrovato vuole sentire parlare. Il distacco dalla realtà è una malattia endemica che spesso affligge un mondo che più di altri dovrebbe essere virtuoso in termini di consapevolezza, quello della cultura. Non conto gli innumerevoli WhatsApp surreali che ho ricevuto subito dopo la nascita della mia bambina. Cinque giorni dopo il parto: “Sei già rientrata al lavoro?”. E successivamente: “Lo so che sei in maternità, ma potresti scrivere della mia mostra? Intervistarmi? Promuovere il mio evento?”. O ancora: “ma adesso che hai avuto la bambina lavorerai ancora? O pensavi di stare a casa?”. Fino a far seguire, più avanti, ad una mail inviata di venerdì sera alle 21, una mail il lunedì mattina alle 8,30, oggettivamente non di vitale importanza, con messaggi del tipo: “so che sei presa dalla bambina e quindi forse la mia mail ti è sfuggita…”. O ancora: “c’è una inaugurazione, ma tu sicuramente non puoi venire” (e chissà perché no?). O ancora quel “come stai?” pronunciato con voce sommessa, come se invece dell’esperienza più bella ed emozionante della mia vita stessi affrontando un momento difficile. Il settore dell’arte aveva già dimostrato alcune falle nella sua capacità di connettersi con la realtà durante l’epidemia da Covid-19. Lasciando indietro la parte più bella che lo riguarda, cioè l’umanesimo, negli anni immediatamente precedenti la pandemia, il nostro mondo aveva cominciato a parlare un finto “managerese”, chiedendo riunioni a tutte le ore, non rispettando i normali momenti di pausa, i pranzi, le cene, le domeniche, i giorni di festa, le telefonate non oltre le 20, e così via. Non era insolito sentire qualcuno pronunciare frasi del tipo: “il collega/la collega è rimasta a casa perché aveva la febbre: io con la febbre a 38 vado a lavorare!”.
La maternità secondo Mariacristina Ferraioli
Poi è arrivato il Covid e questa frase ha mostrato il lato debole e poco ortodosso della realtà che palesava. “Il rientro al lavoro è stato complesso”, spiega Mariacristina Ferraioli, giornalista, docente e curatrice. “È stato molto faticoso trovare un equilibrio tra le nuove responsabilità familiari e il ritorno alle attività lavorative. Senza contare la difficoltà emotiva del distacco, se pur breve, dalla bimba dopo mesi di rapporto esclusivo e totalizzante. L’aspetto più difficile da gestire è stato ed è il tempo in relazione alle aspettative degli altri. Nel mondo dell’arte c’è una pretesa all’immediatezza che quasi mai tiene conto delle esigenze di una donna che ha partorito da poco”. È incredibile come un ambiente che si reputa in fin dei conti progressista, e qualche d’uno direbbe di sinistra, abbia poi scardinato in larga parte le regole e i principi legati ai diritti dei lavoratori. Sarà che l’arte è prima di tutto una passione e una malattia, come il gioco d’azzardo, e io sono la prima ad esserne affetta, sarà che quando si lavora da casa, pratica molto diffusa tra gli operatori culturali, il conteggio delle ore e dei minuti è molto diverso rispetto a quando si timbra il cartellino, ma improvvisamente questioni di solidarietà sociale e professionale, malattia, difficoltà familiari (non solo per chi ha prole) vengono meno, diventando quasi un fastidio. Riparte dunque la guerra, che riguarda in generale tutti i settori delle professioni, tra persone con figli e persone senza figli, tutti intenti ad accusarsi gli uni con gli altri di non lavorare abbastanza e di non essere comprensivi con le difficoltà reciproche.
L’importanza del supporto reciproco
Nonostante questo, ci sono anche le esperienze positive di reti solidali, o semplicemente professionalità che contano su percorsi di vecchia data, consolidati, anche nelle relazioni interpersonali. “Mi sono sentita”, spiega l’artista Luana Perilli, “supportata dal dialogo con le persone che credono nella mia ricerca. In particolare, vorrei ringraziare i miei galleristi che mi hanno proposto un nuovo progetto per il 2021 e poi per una personale il 2022.
Ricordo una telefonata con Fabrizio del Signore mentre ero in uno stato di trance tra un lockdown e un altro, con la bambina piccolissima e lui mi diceva “mettiti lì due ore al giorno per iniziare un nuovo progetto: tu ce la fai” e con mia grande incredulità sono riuscita a riprendere a lavorare a delle sculture e un video elaborando un progetto di ceramica su Narciso e Boccadoro e la loro amicizia oltre la pestilenza e la sciagura. L’amicizia mi è venuta in soccorso in molte forme in quel periodo ed è stato spontaneo celebrarne la magia e il mistero. Mi alzavo di notte per andare a ritoccare le sculture ed ero di nuovo ossessionata da quel pensiero del fare.
Questo mi ha dato la misura che ero davvero ancora me stessa come artista e come persona.
Devo dire che non mi sono sentita abbandonata nonostante fossi distante, appannata o poco partecipe per ovvi motivi. Specialmente la comprensione di altre donne, non solo professionale, è stata fondante e fondamentale. La sorellanza è un fatto naturale che va enfatizzato e nutrito. Questa è una consapevolezza che è emersa per me in modo sempre più forte sul lavoro e altrove”.
L’esperienza di Pensiero Stupendo
E ancora sempre Perilli racconta dell’esperienza di solidarietà tra artiste, il Pensiero stupendo, che ha coinvolto, tra le altre, Elena Bellantoni, Roxy in the Box, Lucia Veronesi, Guendalina Salini, Delphine Valli, donne non necessariamente madri che si sono rese conto di come la trasversalità delle problematiche fino ad oggi solo parzialmente affrontate dal sistema ha bisogno di una orizzontalità nel tema del sostegno, mettendo al centro la questione di genere. “Proprio Laura (Cionci, scomparsa nel 2022 ndr.) ha organizzato da me”, continua Perilli, “una serie di pranzi e momenti con artiste donne di Roma e mi rendo conto solo ora che aveva capito che avevamo bisogno di rinforzare quella rete che ha poi avuto un momento bellissimo nell’ incontro nazionale ‘il Pensiero stupendo’. Lei ha fatto da collante e da motore mettendomi al centro di un gruppo eccezionale in quei giorni in cui mi sentivo profondamente sola e avrei continuato sicuramente ad isolarmi come mia abitudine”.
Per molto tempo la maternità è stata solo un tema da ritrarre, oggi è anche una questione culturale e sociale. Come scrive Hettie Judah nel suo saggio (scoperto grazie a Vera Maglioni) How Not To Exclude Artist Mothers (and other parents)(Lund Humphries, 2022), per molto tempo agli artisti è stato detto che non potevano avere successo ed essere genitori. Ora è necessario un cambio di paradigma, che riguarda non solo gli artisti ma tutti gli operatori del settore. E si può partire cominciando a raccontare delle storie positive (il libro di Judah, ad esempio, offre molti esempi di successo e la presentazione di buone pratiche e reti alternative pur condividendo con gli intervistati l’idea di un iniziale svantaggio professionale ai nastri di partenza), di come affrontare questo momento importante, offrendo punti di riferimento, idee, progettualità, proposte e nuove chiavi di lettura. Anche in Italia.
Santa Nastro
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