“Mi definiscono artista totale e hanno ragione”. Intervista a Rinus Van de Velde che arriva a Roma
L’ottava mostra dell’artista belga con la Tim Van Laere Gallery sarà per la prima volta a Roma, con una nuova serie di lavori incentrati sul racconto visivo di un’autobiografia immaginaria
L’artista visionario Rinus Van de Velde (Leuven, 1983) espone per la prima volta a Roma con la personale I am done singing about the past, allestita alla Tim Van Laere Gallery, all’interno del cinquecentesco Palazzo Donarelli Ricci.
Tra disegni a carboncino, matita colorata e pastello a olio, Van de Velde – sempre in viaggio tra sogni e immaginazione, figure reali e parole ambigue – affresca un mondo tutto suo, che racconta in questa intervista.
Intervista a Rinus Van de Velde
Dopo numerose esposizioni all’estero, I am done singing about the past alla Tim Van Laere Gallery, è la tua prima personale in Italia. Qual è il concetto principale che ispira questa mostra e quali aspetti del tuo fare arte intendi mettere in luce?
Tutti i miei lavori sono connessi all’idea di una biografia immaginaria e questa mostra costituisce il più importante capitolo della mia narrazione attuale. Piuttosto che scegliere una trama o un tema specifico per l’esposizione, ho abbracciato il multiverso, che è il mio lavoro. Per valorizzare questo concetto, inoltre, ho scelto di presentare vari media con i quali lavoro: disegni a carboncino di grandi dimensioni, disegni realizzati con pastelli ad olio o matita colorata e una scultura in cartone, che faceva parte del set del mio ultimo film A Life in a Day.
Quando ci si misura con un artista si cerca sempre di comprenderne approccio e pratica. Nel tuo caso vieni definito “artista totale”. Ti ritrovi in questa espressione? Qual è stato il tuo percorso di studi?
Ho studiato scultura, ma ben presto mi sono accorto che ero più attratto dalle possibilità narrative dei disegni. Sono affascinato dalle strutture narrative e dal potere della narrazione. Questa ossessione per le storie visive mi ha portato ad esplorare molte strade: il disegno e la scultura, ma anche le decorazioni a grandezza naturale e le riprese cinematografiche. Non voglio limitarmi e scegliere il mezzo a seconda dell’argomento che desidero indagare. Quindi sono decisamente d’accordo con la definizione di “artista totale”, anche se considero ancora il disegno come il cuore della mia pratica.
Perché proprio il disegno?
È il medium utilizzato che ti permette di progettare il tuo mondo. Nel suo testo La pittura e le arti grafiche, Walter Benjamin distingue tra il carattere verticale, rappresentativo di un dipinto e quello orizzontale, che contraddistingue il disegno. Il disegno orizzontale esplora in che modo si forma il significato al suo interno e attraverso di esso. Si può considerare letteralmente “un gioco con i segni”. Il disegno è visto come un sistema simbolico che genera significato. La superficie piatta del supporto valorizza la connessione tra disegno, pensiero e le sue direzioni correlate: si va dal concetto al disegno o, al contrario, da questo all’immagine della mente. Io credo che questa idea di rendere visibili e accessibili i miei pensieri sia un elemento chiave per comprendere i miei lavori.
A proposito dei tuoi disegni, qual è stata l’evoluzione della tua pratica artistica dall’uso del carboncino alla recente sperimentazione con matita colorata e pastello a olio? Cosa ti ha attratto di questi mezzi espressivi e quali possibilità aggiuntive ti offrono?
Ho iniziato a disegnare in bianco e nero perché ero attratto dall’affinità con il documentario. Per dieci anni ho realizzato solo disegni a carboncino in bianco, nero e sfumature di grigio. Questa pratica ha contribuito a conferire ai miei disegni un chiaro distacco dalla realtà. Man mano che affinavo la tecnica a carboncino, diventavo sempre più interessato al rapporto tra pittura e disegno. Volevo trovare un modo per esplorare le possibilità della pittura attraverso il mezzo grafico.
Ho iniziato a introdurre il colore con la matita, ma questa tecnica consentiva solo disegni su piccola scala, perché dovevo essere in grado di tenere il passo con la tensione dei pensieri che mi attraversano la mente. Dopo aver cercato per più di dieci anni una tecnica del colore che avesse la stessa potenza espressiva del carboncino, ho trovato quelle qualità nel pastello a olio. Un materiale che mi permette di disegnare con la stessa forza e fluidità del carboncino, offrendo allo stesso tempo una gamma molto più ampia di possibilità.
Da una parte nel mondo dell’arte si è arrivati ad una concezione dell’opera come aperta a tutte le interpretazioni possibili. È lo spettatore a scegliere cosa vedere o a completare l’opera. Questo vale soprattutto nel concettuale, per le installazioni e per ciò che può definirsi è astratto. In questo momento, d’altra parte, viviamo un grande ritorno del figurativo. Alcuni ritengono che talvolta il neo-figurativismo sfoci nell’illustrativo, addirittura nel fumettistico, come se non sia più sufficiente a chi crea rappresentare qualcosa, ma si senta la necessità di apporre una didascalia. Cosa pensi di questa situazione? Credi che combinare immagine e linguaggio sia un mezzo più sicuro per far arrivare il proprio messaggio?
Ciò che mi affascina è la correlazione e l’attrito tra immagine e linguaggio, in realtà non sono interessato a trasmettere un messaggio vero e proprio. Ci si aspetta che le parole siano uno strumento per comunicare, quindi che siano più dirette e vicine alla verità. Eppure io credo che il linguaggio abbia i suoi limiti: ci lascia incapaci di comunicare certe cose, sensazioni o emozioni.
Per questo abbiamo bisogno del mondo delle immagini, per descrivere l’indescrivibile. Ma le immagini sono soggette a molte interpretazioni, c’è sempre una certa diffidenza nei loro confronti. Una diffidenza che tuttavia può essere bilanciata dalla giustapposizione di un dato testo. Le frasi sotto l’immagine hanno un valore preciso nella mia opera, ma non raccontano mai la storia completa.
La combinazione di testo e figura ha una lunga storia nell’arte e soprattutto nel secolo scorso, con il dadaismo, il surrealismo, Fluxus e l’emergere dell’arte concettuale. Mi interessa il rapporto tra linguaggio e arte quanto l’attrito tra realtà e finzione. Quindi, anche se il mio lavoro può essere descritto come figurativo e narrativo, credo che sia ancora aperto a tutte le interpretazioni possibili.
Io sono della scuola di Keats quanto alla sua Ode su un’urna greca. Condivido l’idea che solo nella Verità si celi la Bellezza e viceversa. Su di te invece si legge che “raccontare una bugia è molto più interessante”. Perché?
Non penso che sia così interessante dire cosa è e cosa non è reale, ossia indicare la verità. Non mi ritengo un’autorità della verità. E questo è legato a ciò che ho specificato riguardo alla mia pittura, non sono quel tipo di artista che potrebbe affermare e dire “il mondo è così”. Mi piace che tutto sia ambivalente e che ci siano esitazioni: è falso o è un fatto? Come il mito delle origini di Joseph Beuys che ha aperto un mondo completamente nuovo. Le sue opere hanno avuto origine da una falsificazione e diventa quasi irrilevante se la sua storia dell’incidente aereo sia reale o no. Credo fortemente che le verità universali possano essere trovate nelle congetture che facciamo per trovarle.
La tua serie di lavori affresca un multiverso nel quale ti trovi a vivere storie inventate. Da cosa nasce questa esigenza? Si tratta di una evasione dalla realtà o di un esuberante slancio verso la fantasia? E da ultimo, i tuoi sono viaggi privati di cui intendi dare testimonianza o viaggi che anche il pubblico è invitato a intraprendere?
Non si tratta di una fuga, piuttosto direi del bisogno di esplorare più realtà contemporaneamente. Cerco un modo per esplorare ogni pensiero impulsivo, desiderio e aspirazione, ma la realtà non mi consente di farlo. Nel mondo reale esistono milioni di limitazioni e di problemi che io voglio eliminare per accedere solo ai livelli di realtà che mi interessano. E mentre condivido i miei pensieri attraverso il mio lavoro, invito tutti a unirsi a me nei miei viaggi interiori e nei miei sogni ad occhi aperti.
In che modo gli alter ego che costruisci ti permettono di esplorare mondi diversi e cosa rappresentano per te?
Gli alter ego erano una sorta di alibi per entrare in mondi molto diversi dal mio. Mi hanno anche permesso di aggirare le leggi spazio-temporali e di viaggiare indietro nel tempo. In un certo senso si è trattato di semplici percorsi per raggiungere un determinato obiettivo, come, ad esempio, avere una conversazione con diversi grandi artisti che ammiro.
Viviamo il tempo dell’intelligenza artificiale che permette a chiunque voglia di cambiare la realtà, alterarla, sostituirla e riplasmarla secondo il proprio gusto. Che opinione hai dell’AI?
Penso che l’AI sia un nuovo mezzo affascinante, che mette in discussione anche le nostre nozioni a proposito dell’autorialità. Un argomento che è stato oggetto di discussioni vivaci lungo tutta la storia dell’arte e che ora è entrato nel dibattito con un ampio consenso sociale. L’AI può portare molte novità, ma può anche oltrepassare certi limiti che non vogliamo siano oltrepassati nella nostra società.
La tua pratica di storytelling fatta di appropriazioni e di invenzioni, ti aiuta anche a scoprire qualcosa in più rispetto alla tua identità e al tuo percorso artistico?
Sì, è così. Permetto ai miei processi mentali e ai miei sogni ad occhi aperti di vivere una vita al di fuori di me stesso. Assumere il ruolo di spettatore della mia esistenza interiore, mi offre la possibilità di trovare ogni volta una prospettiva inedita cui guardare alla mia ricerca personale.
Francesca de Paolis
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