La Biennale di Venezia curata da Pedrosa? Trionfo dello shabby chic e della didascalia 

Che ribaltamento di ruoli! Quando il contenutismo prende il sopravvento la didascalia diventa l’opera d’arte (e l’opera la didascalia della didascalia). Basta andare a Venezia per rendersene conto

Evviva i manufatti costosi e tutti quei gingilli inutili che stanno benissimo nelle hall dei grandi alberghi. Blocchi di marmo plastiglomerato saldati da manager aziendalisti che pontificano sulla selezione naturale. Kit di ‘autoaiuto’ biologico. Crapstraction, astrazione algoritmica, installazioni personalizzate che comprendono lezioni di krav maga. Religiose manicure che faranno strage, anche di cuori, in tutte le stagioni, soprattutto se firmate Louis Vuitton. Mandala fatti con gli hedge fund. Moda modesta. Moda immodesta. Paccottiglia nativista. Caviale geneticamente modificato in garbato vasellame etnico. Chirurgia plastica concettuale. Chirurgia plastica razziale. Pistole con impugnature d’avorio fatte su misura. Murales sui muri di frontiera. Buona fortuna con tutta questa roba: sarete miei mortali nemici” (Hito Steyerl, Se non avete pane, mangiatevi l’arte! L’arte contemporanea e i fascismi derivati, in Duty Free Art, Johan & Levi 2018, p. 169).  

Frieda Toranzo Jaeger, 60. Biennale di Venezia, "Stranieri Ovunque", Corderie dell'Arsenale. Photo Irene Fanizza
Frieda Toranzo Jaeger, 60. Biennale di Venezia, “Stranieri Ovunque”, Corderie dell’Arsenale. Photo Irene Fanizza

Il trionfo a Venezia dello shabby chic 

Se è vero che ci siamo forse liberati della crapstraction (copyright Jerry Saltz) e dei ‘gingilli’ à la Koons, di ‘paccottiglia nativista’ e di shabby chic invece nella mostra Stranieri Ovunque / Foreigners Everywhere curata da Adriano Pedrosa per la Biennale di Venezia ce n’è abbastanza: anzi, si potrebbe quasi dire che l’intera esposizione rappresenti il trionfo definitivo e insuperabile dello shabby chic globale (assurto addirittura a schema interpretativo del mondo e ‘teoria del tutto’). “Il termine shabby chic identifica uno stile di decorazione d’interni in cui mobili, accessori e arredi sono scelti per il loro aspetto invecchiato e usurato, che può essere autentico o frutto di un’apparenza realizzata appositamente” (Collins English Dictionary). 

Venezia: il trauma collettivo nella storia dell’arte 

Nel caso della stragrande maggioranza delle opere d’arte esposte al Padiglione Centrale dei Giardini e all’Arsenale (sono 300 artisti, di cui – come ha fatto notare Ludovico Pratesi – il 60% sono morti: Pedrosa è dunque riuscito nell’impresa di superare la già altissima percentuale, la metà circa, di autori deceduti presenti nel Latte dei sogni di due anni fa…), “l’aspetto… che può essere autentico o frutto di un’apparenza realizzata appositamente” si coniuga necessariamente con la storia dell’artista. Questa narrazione, questa storia – che costituisce, testimonia e garantisce la dimensione dell’autenticità, della veridicità – è sostanzialmente il racconto del trauma personale e collettivo. La storia è l’artista, la storia è la vita dell’artista. Da cui consegue: l’opera è l’artista, l’opera è la vita dell’artista. Legittimo l’opera, dunque, attraverso il racconto dei suoi traumi, delle ferite sociali, storiche e culturali che ha subìto in prima persona: racconto che si esplica non solo (e non tanto) all’interno dell’opera, appunto, ma fuori da essa – magari nella didascalia (es)posta accanto. Con esiti a volte decisamente grotteschi e tragicomici. 

L’opera d’arte è la didascalia 

Per cui, potremmo anche dire: la vera opera oggi è – in molti casi almeno – la didascalia. (E ovviamente l’opera stessa, quella appesa al muro o posizionata sul piedistallo, è la didascalia della didascalia.) In quest’ottica, il lavoro vero e proprio è ridotto a un pretesto, qualcosa che sta lì a giustificare la didascalia che contiene-il-contenuto. Questo aspetto – forse non ce ne siamo accorti abbastanza finora, perché tende a camuffarsi con i linguaggi gli orpelli e gli stilemi installativi, concettuali, artigianali, neoespressionisti dei decenni precedenti – cambia radicalmente ruolo e funzione dell’opera. In tal senso, certamente, Stranieri Ovunque è formidabile nella capacità di fare il punto su un momento epocale. Contempliamo quindi queste opere così ‘coraggiose’ alle biennali, alle fiere, nei musei, ma queste opere sono oggetti (se sono oggetti; e anche se non lo sono) completamente diversi da quelli di venti, trenta o cinquant’anni fa: non diversi nell’apparenza, ma proprio nella struttura e nel tipo di relazione che decidono di stabilire con noi. Nel comportamento che adottano e nell’attitudine che possiedono. 

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60ma Esposizione Internazionale d’Arte. Ph: Irene Fanizza

Il contenutismo per Filippo La Porta 

Questo fenomeno si può definire “contenutismo”, termine-concetto che volentieri mutuo da Filippo La Porta, e che si trasferisce facilmente dal territorio della letteratura contemporanea a quello dell’arte visiva. Il contenutismo si sposa naturalmente, e organicamente, con lo shabby chic, con un aspetto decorativo che sa di autentico – e inoltre con la ‘transizione’ appena descritta dall’opera alla didascalia e viceversa. Il ‘contenuto del contenutismo’ va perciò raccontato a parte, e affiancato all’opera/oggetto/decoro. Un lavoro che a prima vista è banale, ridondante, già visto, anche a volte fatto male, si riabilita magicamente leggendo la “storia” abbinata, la storia di chi l’ha realizzato; esso non va dunque assolutamente considerato secondo il sistema di valori della storia e della critica d’arte (ah no?).  

Esempi di contenutismo 

Qualche esempio preso a caso: “Santiago Yahuarcani è un pittore e scultore autodidatta appartenente al clan Aimeni (clan dell’Airone bianco) della Nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale. I suoi dipinti non derivano né dipendono dalla storia dell’arte occidentale.” “Rember Yahuarcani è un pittore, scultore, curatore e attivista appartenente al clan Aimeni (clan dell’Airone bianco) della nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale in Perù. I suoi dipinti attingono alle narrazioni della mitologia uitoto e alle tradizioni e tecniche artistiche occidentali.” Quindi tra i due il fratello minore ammette l’Occidente tra le sue influenze artistiche, accanto alle proprie radici identitarie, mentre il maggiore le rifiuta categoricamente.  “A Espiral do Medo (2022) di Kiluanji Kia Henda utilizza ringhiere metalliche prese dagli edifici e dalle case di Luanda che nel 2015 hanno attirato l’interesse dell’artista. Seppure costituita da ringhiere metalliche che un tempo offrivano una solida protezione a chi si trovava all’interno, la scultura di grandi dimensioni appare ora permeabile e alquanto instabile – come una sorta di rovina – e funge da mero emblema della paura.” Permeabile e alquanto instabile. Una sorta di rovina. Mero emblema della paura. (Di quest’opera, e del suo confronto con il lavoro di Flavio Favelli, ho parlato diffusamente nel pezzo pubblicato sul magazine n.78 di Artribune).  “Marlene Gibson è una Wathaurung / Wadawurrung Elder e Traditional Owner la cui pratica pittorica contemporanea è caratterizzata da una meticolosa attenzione ai dettagli. I suoi dipinti pongono rimedio a una storia dell’arte che ha cancellato le persone, le comunità e la cultura aborigene.”  Eppure, come afferma Alessandro Del Puppo, “se davvero volessimo rispettare il lavoro degli artisti di Yrkkala e di Dehli, di Accra e di Cujanicuilapa dovremmo concedere loro un respiro e un passo diverso. Dovremmo costruire narrazioni certo meno accattivanti rispetto allo spettacolare quanto banale accumulo sulle pareti, ma un po’ più coraggiosamente concepite” (Una Biennale non può far tutto, “doppiozero”, 29 maggio 2024).

Una visita in Biennale senza strumenti? 

In questo mese e mezzo trascorso dall’inaugurazione della Biennale, ho letto e sentito persone intelligenti e colte, che stimo, arrampicarsi sugli specchi per dire che forse “non avevano gli strumenti” per approcciare questo tipo di lavori, che essi erano “lontani dalla cultura occidentale” e quindi andavano giudicati “secondo altri parametri” (quali?). Oppure – come a volte capita – è parecchio più semplice di così. Il refrain pressoché costante delle famose didascalie, la conclusione ripetuta centinaia di volte, è infatti: “L’opera di _________ è esposta per la prima volta alla Biennale Arte.” Non so francamente se sia qualcosa di cui vantarsi, o se non fosse meglio piuttosto sorvolare; magari, dico solo magari, se è la prima volta non è dovuto necessariamente a esclusione malevola o discriminazione consapevole. Come ha scritto Stefano Chiodi: “Spostando sul piano simbolico conflitti reali (emarginazione, sfruttamento, razzismo ecc.) che restano inespressi sul piano politico, essa si nutre in fondo dell’idea che l’esperienza artistica sia riducibile a una pedagogia etica, rimuovendo così il nodo cruciale di una specifica efficacia estetica che resta ancora il termine fondamentale con cui valutare un’opera d’arte e la riuscita di una mostra” (Biennale 2024. L’esperienza artistica non può essere (solo) pedagogia etica, “Artribune”, 23 aprile 2024).

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Disobedience Archive (The Zoetrope), 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere. Photo Marco Zorzanello. Courtesy La Biennale di Venezia

Le opere alla Biennale di Venezia di Pedrosa 

Non sto assolutamente dicendo che nelle due sezioni della mostra, Padiglione Centrale e Arsenale, sia tutto così. L’opera video, per esempio, di Manauara Clandestina (Manaus, Brasile 1992), dedicata alla comunità brasiliana dei travesti, è molto potente, così come la serie pittorica neo-picassiana di Louis Fratino (New York, 1993) dedicata alla vita quotidiana queer. Alessandra Ferrini (Firenze, 1984), vista quest’anno al Museo Novecento di Firenze, ha realizzato il progetto video Gaddafi in Rome: Anatomy of a Friendship, che funziona molto bene sia dal punto di vista narrativo che allestitivo; il Disobedience Archive di Marco Scotini – suddiviso qui nelle due macrosezioni Diaspora Activism e Gender Disobedience – ha trovato una sua nuova declinazione nello Zoetrope esposto all’Arsenale, dove si può passare anche una giornata intera, volendo; lo storico allestimento con il “cavalletto in vetro” di Lina Bo Bardi (Roma 1914-San Paolo 1992) concepito per il MASP (Museu de Arte de São Paulo Assis Chateaubriand) e presentato per la prima volta nel 1968 è ancora sorprendente, anche se viene purtroppo un po’ buttato via, in maniera alquanto incomprensibile, nel Nucleo Storico Italiani Ovunque. Infine, Personal Accounts di Gabrielle Goliath (Kimberley, Sud Africa 1983), videoinstallazione sulle espressioni involontarie dei corpi donne gender non-conforming durante il racconto di violenze fisiche, psicologiche e sistemiche, e l’installazione Ao Infinito del Leone d’Oro alla Carriera Anna Maria Maiolino (Scalea 1942), realizzata con la vegetazione,  sono due tra le cose migliori in mostra: “L’opera esalta il gesto manuale e la ripetizione nella costante modellazione di numerose piccole sculture, simili e diverse, mantenendo il lavoro incompiuto, aperto, in perenne evoluzione” (Amanda Carneiro).  Però ecco, forse cinque o sei lavori interessanti e di buon livello su trecento è un po’ pochino per la più grande mostra di arte contemporanea – sottolineo: contemporanea – del pianeta, e per un lavoro di ricerca e ricognizione di (almeno) due anni.  

POSTILLA

Il “porre rimedio” dell’ultima didascalia citata è il fulcro di tutta la questione: porre rimedio cioè a torti storici, secolari, porre rimedio alle storture della colonizzazione, porre rimedio all’oppressione e alla discriminazione operate dalla civiltà e dalla cultura bianche e patriarcali. (Ma davvero basta qualche quadro naïf a “porre rimedio”?) Eppure, fa specie notare un aspetto che mi pare centrale per capire questa Biennale. Nonostante, infatti, tutti o quasi gli artisti trattino “temi di attualità” (tranne quelli morti, ça va sans dire; e omettendo per il momento il fatto che già ‘trattare un tema’ per un’opera d’arte rappresenti un problema piuttosto serio…), la sensazione ineludibile – a guardare la selezione offerta dal curatore e dalla sua visione – è che molti di loro vivano semplicemente da un’altra parte. Voglio dire, a ben guardare è un’attualità stranamente selettiva; quella più bruciante, infatti, di questi giorni, di questi mesi, di questi anni, di questo preciso momento, stranamente svanisce – sembra in molti casi non toccare questi autori, non preoccuparli affatto. Essi scelgono di non pensarci, evidentemente – o non si sono accorti, banalmente, di ciò che sta accadendo: uno sconvolgimento geopolitico e ambientale con pochi precedenti nella storia, non solo del XX secolo. Persino l’ecologia – se ci fate caso – è scomparsa dai radar, tranne che per qualche timido accenno. L’Antropocene, kaputt.  
Stranieri Ovunque, così, porta a compimento il distacco dalla realtà operato dal mondo dell’arte, che ha ormai una storia lunga e a suo modo gloriosa: essa riguarda infatti non solo gran parte delle ultime edizioni della Biennale di Venezia, ma si può dire un quarantennio abbondante di arte contemporanea.  

Christian Caliandro 

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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