La didascalia e il racconto del trauma come pilastri dell’arte di oggi

La validazione delle opere si concentra non più e non tanto sui lavori in sé, sullo stile, sulla ricerca, quanto sulla storia. La storia è quella individuale dell’autore, a sua volta riflesso e manifestazione della Storia più grande, collettiva

L’artista Flavio Favelli, nel suo articolo pubblicato di recente su Antinomie, parte da un confronto tra il lavoro di Kiluanji Kia Henda (A Espiral do Medo, 2022) esposto alla Biennale di Venezia e il suo (Traliccio Tunisi, 2019; Ferro di Confine, 2023) per riflettere sul concetto di autorialità, di conflitto, e sulla validazione che il sistema dell’arte odierno impone alle opere sulla base di contenuti extra-artistici: “È chiaro che la grande differenza tra la mia opera e quella dell’artista angolano risiede in due relazioni: la provenienza di quei pezzi di ferro e la provenienza dell’artista, che sembrerebbe sia più autorizzato ad esporre un materiale ambiguo e conflittuale come la ringhiera domestica di ferro. Essere un autore del Sud del mondo, nativo di una ex colonia, con materiali ex coloniali, fa la differenza, perché l’artista angolano è portatore, per sua natura, di un quid che un artista bianco occidentale di un ex paese invasore non può avere. Questo quid sarebbe, si presume, legato all’identità della persona che garantisce una sorta di maggiore autenticità, meglio veridicità, dell’opera d’arte, perché di questi tempi, l’arte, nonostante la sua natura diversa, deve diventare sempre più reale1.

La dimensione narrativa delle opere d’arte

Sembrerebbe sia più autorizzato”. Sembrerebbe. Si presume. Provenienza. Quid. Autenticità. Veridicità.  È questo il nucleo di senso di tanta arte contemporanea degli ultimi anni – basta farsi un giro alla Biennale di Venezia da poco inaugurata – e dei discorsi fatti e sentiti attorno ad essa. La validazione si concentra non più e non tanto sull’opera, sullo stile, sulla ricerca, quanto sulla storia. La storia è quella individuale dell’autore, a sua volta riflesso e manifestazione della Storia più grande, collettiva. Testimonianza, prova provata. Questa storia manifesta anche la dimensione narrativa, una dimensione che è stata gradualmente reintrodotta nell’arte contemporanea dopo la sbornia minimalista-concettuale-poverista degli Anni Sessanta e Settanta (che aveva accuratamente eroso ogni accenno al racconto, e al coinvolgimento emotivo), ma in modo molto molto differente da quanto poteva accadere, che so, con il Surrealismo, e prima ancora con la pittura metafisica, o dopo con il New Dada e la Pop Art.

Kiluanji Kia Henda - There are days that I leave my heart at home...
Kiluanji Kia Henda – There are days that I leave my heart at home…

Il racconto del trauma nelle opere d’arte e la didascalia

Questa nuova narrazione, questa nuova ‘storia’, è sostanzialmente il racconto del trauma personale e politico (“il quid di autenticità e di veridicità”). La storia è l’artista, la storia è la vita dell’artista. Da cui consegue: l’opera è l’artista, l’opera è la vita dell’artista. 
Legittimo l’opera, dunque, attraverso il racconto dei suoi traumi, delle ferite che ha subito: racconto che si esplica non solo (e non tanto) all’interno dell’opera, appunto, ma fuori da essa – magari nella didascalia (es)posta accanto. Con esiti a volte decisamente grotteschi e tragicomici.
Per cui, potremmo anche dire: l’opera oggi è – in molti casi almeno – la didascalia. Il lavoro vero e proprio è un pretesto, qualcosa che sta lì a giustificare la didascalia che contiene-il-contenuto. Questo aspetto – forse non ce ne siamo accorti abbastanza finora, perché tende a camuffarsi con i linguaggi gli orpelli e gli stilemi installativi, concettuali, artigianali, neoespressionisti dei decenni precedenti – cambia radicalmente ruolo e funzione dell’opera. Contempliamo quindi queste opere così coraggiose alle biennali, alle fiere, nei musei, ma queste opere sono oggetti (se sono oggetti; ma anche se non lo sono) completamente diversi da quelli di venti, trenta o cinquant’anni fa: non diversi nell’apparenza, ma diversi nella struttura e nel tipo di relazione che decidono di stabilire con noi. Nel comportamento che adottano e nell’attitudine che possiedono.

Il tema del conflitto e la riflessione di Flavio Favelli

Eppure, un’alternativa (per quanto oggi marginale, liminale, magari perdente almeno per il momento…) esiste. Ed è il conflitto altro, minore, invisibile e sotterraneo, ma non per questo meno “struggente e devastante”, a cui fa riferimento Favelli: “Ma non è ugualmente struggente e devastante il fatto che un manufatto di ferro battuto con un raffinato disegno proveniente da una pratica di decoro secolare, sia usato tanto per abbellire quanto per separare e dividere e ribadire la proprietà private e i limiti – ingentiliti, ma invalicabili –, anche se siamo nell’Occidente che non è solo trionfante (…)? E non è ugualmente struggente e devastante che queste ringhiere, raccolte da chi le vorrebbe rivendere a estrosi architetti per ristrutturare casali e villini toscani e umbri shabby chic, siano usate per una perversa costruzione, un assemblaggio che le tiene insieme, come catasta arrugginita per mostrare un cippo-recinto, quasi monumento scassato, a ricordo ambiguo di oggetti belli e violenti al tempo stesso?2

Christian Caliandro


Note:
1 Flavio Favelli, Il peso del ferro, “Antinomie”, 17 maggio 2024 
Ibidem

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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