Il risveglio dell’arte First Nation. Tra rivendicazione indigena e sguardo occidentale

La Biennale Arte di Venezia 2024 porta sotto i riflettori l’arte indigena, consacrando un processo già in atto in occidente da diversi anni. Ecco cos’è l’arte First Nation e perché dobbiamo parlarne

C’era una volta lo spazio sacrale della galleria d’arte moderna. Qualche tempo fa, l’Università e il Museo Nazionale dell’Australia a Canberra hanno organizzato una mostra in collaborazione con i popoli dei territori di Martu, Anangu, Pitjantjatjara, Yankunytjatjara e Ngaanyatjarra, intitolata Songlines (le vie del canto). L’evento aveva l’intento di ricostruire il racconto degli Antenati che hanno viaggiato in tutta l’Australia nel tentativo di sfuggire a una figura lasciva (forse una sorta di metafora della colonizzazione): gli Anziani hanno chiesto aiuto ai curatori per ricomporre le vie che a detta di David Miller, un anziano Anangu, “sono tutte infrante, disgregate”. La rappresentazione all’interno della galleria ha permesso ai popoli aborigeni di raccontare la loro storia epica, recuperando e rimettendo insieme le tessere di una narrazione, e allo stesso tempo ai non aborigeni di comprendere qualcosa del profondo rapporto esistente tra le persone e i loro paesaggi(cultura e cosmologia) che connette popoli e luoghi attraverso lande deserte. 

Un nuovo interesse per l’arte indigena

Tale unione d’intenti o incontro storico (che meriterebbe un riconoscimento) non poteva avvenire se non dopo un lungo processo di negoziazione e di re-immaginazione da parte di entrambe le culture, quella autoctona e quella occidentale. Forse non è un caso se in questo momento in varie parti del mondo c’è un risveglio di interesse per l’arte dei popoli indigeni, rivisitata e accolta all’interno dei luoghi e delle ritualità dell’arte contemporanea occidentale. 
Le tensioni tra la società occidentale mainstream e le culture minoritarie e la loro volontà di mantenere una propria identità non sono certo scomparse. Anzi, gli artisti indigeni oggi, protagonisti globali, spesso muniti di PhD, sono diventati di fatto ambasciatori di una diversa modalità di vedere e sentire. E non solo; rivendicano diritti concreti quali la restituzione di territori e patrimoni culturali (heritage) sparsi nei musei nazionali, ma soprattutto affermano la loro indipendenza culturale e critica rifiutando il giudizio aprioristico di una cultura non indigena, ossia l’occhio alieno del colonizzatore.

Jeffrey Gibson, The space in which to place me, Padiglione Stati Uniti d’America, 60. Biennale di Venezia. Photo Irene Fanizza
Jeffrey Gibson, The space in which to place me, Padiglione Stati Uniti d’America, 60. Biennale di Venezia. Photo Irene Fanizza

Il Padiglione USA di Jeffrey Gibson alla Biennale Arte di Venezia 2024

In un contesto globale, parlare di “sovranità creativa indigena” significa adottare un punto di vista geopolitico specifico, di fronte al quale molte domande rimangono senza risposta: che cosa caratterizza oggi un artista indigeno? Tutti gli artisti indigeni a livello globale hanno le stesse preoccupazioni? E come definire quelle figure ibride che sembrano abbracciare non solo la cultura indigena, ma molti temi contemporanei tra cui le subculture pop o l’arte queer, come fa Jeffrey Gibson, l’artista scelto per rappresentare gli Stati Uniti nel padiglione nazionale alla Biennale di Venezia 2024? 
Secondo David Garneau, canadese, artista indigeno, curatore e educatore, termini come NativeAborigenal e Indigenous, sono definizioni in evoluzione. Indian è un termine coloniale utilizzato fino agli Anni Sessanta, sostituito un po’ alla volta da Aboriginal, poi da First Nation e da First Peoples. Queste non sono solo differenze semantiche, ma costituiscono anche cambiamenti identitari. 

In un contesto globale, parlare di “sovranità creativa indigena” significa adottare un punto di vista geopolitico specifico, di fronte al quale molte domande rimangono senza risposta

L’esempio di Rebecca Belmore

L’arte Aboriginal, sebbene si riferisca soprattutto alla comunità natale dell’artista, viene prodotta anche per musei e contesti non indigeni. Ciò non significa tuttavia che l’arte indigena contemporanea abbia senso solo per una comunità ristretta. 
Ad esempio, Rebecca Belmore, First Nation (Anishinaabe) nata nel 1960, è una artista globale, tra le più interessanti della sua generazione, pluripremiata, presente alla Biennale di Venezia già nel 2005 come rappresentante ufficiale del Canada.  Radicata nelle realtà politiche e sociali delle comunità indigene, Belmore mette in relazione i corpi, i territori e i linguaggi. 
Ciò che caratterizza la sua arte è senz’altro il punto di partenza identitario che riguarda soprattutto i luoghi, la natura, i mari. Ma per l’arte indigena i luoghi identitari costituiscono una poetica che si esprime attraverso il vissuto, la percezione degli elementi, l’esperienza diretta, mentre noi occidentali percepiamo la natura principalmente attraverso la rappresentazione del paesaggio, quasi sempre costruito, e spesso appartenente a qualcuno. 
Tra le opere più suggestive di Rebecca sono Ayum-ee-aawach Oomama-mowan, ossia Speaking to Their Mother, performance concepita durante una residenza nel 1991 al Banff Centre, in Canada, che utilizza un grande megafono di legno che Belmore ha portato in molte comunità e riserve, rurali e urbane. “Volevo localizzare la voce aborigena sul territorio” afferma l’artista, “chiedere alle persone di rivolgersi direttamente alla terra. Un tentativo di considerare la protesta politica come un’azione poetica”.  Wave Sound sculptures (2017), a Green Point nel Newfoundland sono paesaggi sonori dove attraverso un grande cono appoggiato sull’erba volto verso il mare siamo sollecitati a inginocchiarci ad ascoltare il fruscio del vento e l’incresparsi delle onde in fondo alla scogliera.

Anna Detheridge

Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati