Giovanni Rendina. Il curatore di una mostra di artisti immaginari
Sebbene sia nel mondo dell’arte solo dal 2017, questo giovane curatore ha già molti progetti curiosi da raccontare. Come la mostra con artisti di fantasia… ce ne parla in questa intervista
Introdotto al fascino del mondo dell’arte quando studiava al Dams di Bologna, Giovanni Rendina (Cesena, 1991) è oggi ricercatore e curatore indipendente. Dal 2017 a oggi ha curato diverse mostre in Italia e all’estero, e sta ora per pubblicare il risultato delle sue ricerche di dottorato. Con l’occasione, l’abbiamo intervistato per farci raccontare qualcosa delle sue esperienze e della sua visione curatoriale.
Gli inizi di Giovanni Rendina nel mondo dell’arte e della curatela
Per diventare curatori spesso non esiste un iter prestabilito ed è molto variabile a seconda dalle esperienze personali di ognuno. Dove è cominciato il tuo percorso?
Il mio percorso è iniziato diversi anni fa, al Dams a Bologna. Ai tempi non avevo idea di cosa fosse l’arte contemporanea. Qualcosa è scattato in me quando ho seguito il corso di Storia dell’Arte contemporanea, tenuto quell’anno dal Professor Bartorelli.
Che cosa ti colpì in quel corso?
Rimasi colpito quando ci spiegò che, durante l’inaugurazione di una sua mostra, l’artista Yves Klein mise del blu di metilene nelle bevande, alterando così il colore delle minzioni del suo pubblico! Ai tempi pensavo che l’arte fosse qualcosa di polveroso e noioso. Venire a sapere che, negli Anni Cinquanta, un artista si fosse dedicato a colorare di blu l’urina dei visitatori della sua mostra, è stata per me una novità assoluta. Da quel momento ho sempre cercato di indirizzare i miei studi verso l’arte contemporanea, a cui ho affiancato la filosofia politica durante il dottorato.
Che significato ha per te la parola curare?
Credo che questa parola abbia uno spettro di significati molto ampio. Possiamo pensare al curatore come a una figura che mette il proprio timbro sugli artisti con cui lavora come garanzia di qualità… un po’ come il bollino delle banane di una marca particolarmente nota. In altri casi, ci sono curatori che lavorano direttamente con gli oggetti e cercano di creare una narrazione installandoli in uno spazio. Altri ancora fanno politica. Nel mio caso, mi interessa creare un dialogo interessante con gli artisti e provare a immaginare cose altre.
Che rapporto pensi si debba instaurare tra artista e curatore?
È una domanda difficile. Forse dipende soprattutto dal curatore e dall’artista in questione. Io cerco di lavorare come una cassa di risonanza: sono poi gli artisti che esplorano e riproducono la propria pratica. Mi interessa seguirli nello sviluppo di progetti complessi, operazioni che vanno al di là dell’aspetto espositivo. Cerco di aiutarli fornendo un po’ di contesto, e valutando le potenziali debolezze del lavoro. Cerco anche di creare un contraddittorio, però in un ambiente protetto. Avendo un’indole piuttosto polemica mi riesce abbastanza naturale.
I progetti del curatore Giovanni Rendina
Parliamo di un progetto che hai realizzato e che sintetizza bene la l tua ricerca.
Un passo importante è stato scrivere la tesi di dottorato, che verrà pubblicata come monografia in estate. Ho cercato di costruire un volumetto che mettesse insieme qualche strumento concettuale e politico utile – almeno spero – per chi fa arte e chi la esperisce, soprattutto per poterla utilizzare come mezzo per autodeterminarsi.
E per quanto riguarda i progetti più strettamente curatoriali?
Potrei parlarvi di Trapezio Gallery presenta Lo Sguardo Fuori di Andrea Magnani. Un progetto che ho curato recentemente per Gelateria Sogni di Ghiaccio. L’artista ha ricreato una galleria di “secondo mercato”’ mettendo un’illuminazione ad hoc, un po’ vetusta e promiscua, con faretti a luci calde e fredde. All’interno della mostra sono state esposte diverse opere, tutte realizzate da lui, ma attribuite ad artisti di fantasia. È in questa occasione che ho potuto utilizzare la scrittura in maniera diversa dall’utilizzo che se ne fa solitamente per le mostre, approcciando le biografie del gallerista e degli artisti con la consapevolezza che fossero invenzioni. Ho inoltre potuto esplorare la capacità enunciativa di un’esposizione. Con Andrea mi sono infatti chiesto: “Se una mostra dice che un oggetto esposto è arte, allora una mostra un po’ storta, un po’ off, cosa dice e a chi lo dice?”
Vi siete divertiti a farla?
Assolutamente sì. Ci interessava svincolarci dalle sempre più pressanti richieste di allineamento a macro-temi politici, e giocare col carattere finzionale delle narrazioni – non solo nei contesti artistici.
Il ruolo del curatore secondo Giovanni Rendina
L’arte è da sempre parte integrante di ogni cultura e società. Che ruolo sociale pensi abbia un curatore oggi?
Di preciso, non saprei! Ci sono curatori interessati al mercato, e altri che portano avanti una battaglia più dichiaratamente politica. Essendo una figura così mobile e con tante declinazioni, è difficile pensare in maniera definitiva a quale sia il suo ruolo all’interno della società.
E quali possono essere le sfide maggiori?
Credo che la sfida maggiore sia portare avanti una pratica che, pur tenendo conto dell’urgenza politica, riesca a mantenere una certa indipendenza rispetto alle richieste delle istituzioni. Questo per me vale anche quando la stessa pratica curatoriale è intesa in termini politici: credo che la sfida stia nel non posizionarsi in termini istruttivi rispetto a macro-temi, e lasciare che sia il pubblico a formarsi una propria opinione sugli argomenti trattati. Insomma, più che dare risposte, credo che sia interessante fare domande, e magari sforzarsi di comprendere che a volte è anche possibile incepparsi, piuttosto che costantemente essere utili a qualcosa o qualcuno.
Una delle ultime mostre che ti ha colpito particolarmente?
Mi è piaciuta molto Have a Good Day!, opera lirica nata dalla collaborazione tra Vaiva Grainytė, autrice del libretto, Lina Lapelytė, compositrice e direttrice musicale, e Rugilė Barzdžiukaitė, regista e scenografa. Curata da Lorenzo Balbi a Bologna. I 10 personaggi – 10 cassiere subito riconoscibili per via dell’abbigliamento – cantano la loro condizione umana e lavorativa. Il tutto è organizzato in maniera frontale, molto accessibile, quasi pop. Un canto principalmente a cappella, cadenzato da un costante bip del tutto simile a quello di un registratore di cassa.
Qualche giovane artista con cui collaboreresti volentieri?
Mi piacerebbe moltissimo lavorare ancora con alcuni degli artisti con i quali ho lavorato in passato, per portare avanti la conversazione. Sono un po’ atipico in questo senso, ma per me di solito i progetti nascono dopo aver conosciuto bene una persona; di rado avviene il contrario.
Guardando alla storia dell’arte, c’è una corrente, un movimento, o un artista del ‘900 al quale ti senti particolarmente vicino?
Il Dada newyorkese mi piace molto, o anche il Futurismo. Però non direi che mi sento vicino. Mi sento già molto distante dalla storia dell’arte, dai curatori e dagli artisti contemporanei, figuriamoci rispetto a quelli morti!
Ultima domanda: qualche libro che ha segnato il tuo percorso professionale o personale e perché?
Per quel che riguarda la parte più teoretica apprezzo molto il post-strutturalismo: l’Anti-edipo di Deleuze e Guattari, e Le regole del discorso di Foucault, sono stati molto importanti per me negli ultimi anni.
Mi piacciono anche libri meno speculativi. Anni fa lessi L’arte e lo zen della manutenzione della motocicletta e mi piacque moltissimo, in particolare mi colpì come l’autore riuscisse a mettere insieme una parte di romanzo e una più strettamente saggistica. Di recente ho letto Q di qomplotto di Wu Ming1; è stata una lettura veramente clamorosa.
Viola Cenacchi
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