Il lusso del dubbio. Intervista al grande artista Carsten Höller
Noto per i suoi fotografatissimi funghi capovolti in Fondazione Prada a Milano, Carsten Höller torna in Italia con una nuova installazione nel veneziano Palazzo Diedo. In questa intervista ci racconta la sua filosofia artistica, tra il bello dell’incertezza, il ritorno al gioco e alla natura
“Si può spegnere la musica? Sono molto sensibile ai suoni… da quando sono bambino riconosco immediatamente la specie degli uccelli dal loro cinguettio”. Inizia così la nostra conversazione con uno degli artisti contemporanei più eclettici, innovativi e curiosi della nostra epoca: il tedesco Carsten Höller (Bruxelles, 1961). L’artista ci accoglie nel salotto al piano terra nell’elegante hotel veneziano dove soggiorna per pochi giorni, in occasione della presentazione della sua nuova opera d’arte permanente Doubt Staircase a Palazzo Diedo. Si tratta di un’azione che va a ultimare una scala incompiuta del XVIII Secolo, collegando il primo piano e il secondo piano nobile del palazzo recentemente acquistato e ristrutturato da Nicolas Berggruen come sede del Berggruen Arts & Culture, inaugurata durante la Biennale dalla mostra collettiva Janus (visitabile fino al prossimo 24 novembre). La struttura – una scala a chiocciola con balaustre in metallo, marmo di Vicenza e marmorino – ha la caratteristica di essere inclinata impercettibilmente di 5 gradi: un’alterazione minima, che si percepisce solo percorrendola e che genera un dubbio, un’incertezza che si insinua gradualmente nell’osservatore (un aspetto ricorrente nella produzione dell’artista). Artribune ha avuto l’occasione di parlarne con l’artista, scandagliando i temi principali della sua ricerca artistica: il dubbio, la scienza, la natura e il gioco.
Per questa installazione a Palazzo Diedo, hai completato una scala del XVIII Secolo. Che valore dai alla storia dell’arte del passato (sia dell’edificio che della città stessa)?
Quando sono arrivato a Palazzo Diedo per la prima volta, mancava una scala che collegasse il primo e il secondo piano: ce n’erano due da un lato, e solo una dall’altra, quindi ho deciso di costruirne una, principalmente per due motivi. Uno è che ho costruito, qualche tempo fa, delle scale in congiunzione con due torri che contenevano due scivoli. Una si trova a Vitra, nel sud della Germania, vicino Basel, mentre l’altra è vicino a Miami. Per entrambe le torri, che erano inclinate, ho realizzato una scala molto speciale: una a zigzag, che diventa sempre più piccola man mano che si sale, mentre l’altra è un po’ come questa, una scala a chiocciola inclinata. L’altra ragione è che a Venezia ci sono già due scale a chiocciola molto importanti (la stessa storia delle scale a chiocciola nasce proprio a Venezia, perché c’era la necessità di contenere gli spazi): una risalente al XV Secolo, quasi “incollata” all’angolo di un palazzo, e l’altra è quella di Palladio, la prima scala a sbalzo della storia, perché non c’è nessuna colonna centrale o qualcosa che unisca i gradini.
La maggior parte delle persone ti conosce per i tuoi scivoli monumentali, che erano un mezzo per “lasciarsi andare” ad un momento di libertà e sorpresa. Su uno scivolo puoi solo andare verso il basso, mentre su una scala puoi andare in entrambe le direzioni. Qual è il senso che attribuisci alla “verticalità”?
È una bella domanda, perché in realtà nulla è davvero verticale. Ad esempio, in questa stanza, abbiamo degli angoli a 90 gradi che formano delle pareti più o meno verticali. Ma questo è il modo in cui abbiamo concretizzato e razionalizzato, cercando di apporre un sistema che non esiste in natura né da nessun’altra parte, se non nei cristalli e in alcune particolari pietre. E la verticalità e l’orizzontalità sono concetti che non esistono. Come sappiamo, la natura è più organica, quindi le cose cambiano continuamente. Quindi, introducendo uno spostamento nella verticalità, rendendola inclinata, tutto cambia. Diventa improvvisamente qualcosa di diverso. La sicurezza, o meglio la prevedibilità che abbiamo tentato di costruire per sentirci bene viene meno. La prevedibilità è un desiderio molto umano, e lo abbiamo anche dominato, fino ad un certo livello. Quindi il mio punto è che quando ci si spinge tanto oltre quanto ha fatto l’essere umano per predire quello che succederà e mantenere il controllo, allora è il momento di riconsiderare il lusso di lasciarsi andare, introducendo un momento di dubbio o incertezza. E la scala ha a che fare con questo approccio filosofico.
Hai parlato dell’organicità della natura. Come sappiamo, hai conseguito un dottorato in entomologia – lo studio del comportamento degli insetti. Più avanti, nel corso della tua carriera di artista, hai spesso lavorato con la tecnologia e con la scienza. Vedi una connessione tra le forme tra il mondo naturale e la nostra tecnologia?
Siamo così fieri della nostra tecnologia, e parliamo dell’intelligenza artificiale come uno step successivo del nostro sviluppo, ma in realtà, è piuttosto… come posso dire, semplice, sottosviluppata e quasi brutale, se la compari a quello che chiamiamo natura, dalla quale in qualche modo prendiamo le distanze – cosa che io non farei. Il paragone più semplice è quello tra un uccello e un aeroplano. Un aeroplano è un ammasso paffuto di metallo; è fantastico che riesca a volare, è un grande traguardo tecnologico. Ma paragonato a un uccello o a un insetto, non è niente. Non è davvero niente, in termini di livello di complessità. E questo è il punto in cui siamo ora. In qualche modo abbiamo raggiunto il completo dominio del mondo come specie su tutti gli altri organismi che vivono con noi. Li sterminiamo uno dopo l’altro, e poiché siamo così dominanti, ci stiamo diffondendo ovunque. Ma alla fine della giornata, la risposta alla domanda più grande rimane completamente sconosciuta. Non sappiamo cosa sia la vita, ad esempio. Non sappiamo cosa sia la coscienza. Non sappiamo neanche cosa sia il divertimento. E non sappiamo cosa governi davvero le forze nelle nostre esistenze. Penso che sarebbe un bene per noi fare un passo indietro e imparare a capire quanto poco sappiamo.
Il concetto del “dubbio” – che ritroviamo in molte delle tue opere, dagli scivoli ai vision-flipping goggles – è ricorrente nella tua ricerca. Ti andrebbe di approfondire che cosa significa per te?
Da un lato, come ho detto, è un lusso che ti puoi permettere solo che hai le cose abbastanza sotto controllo da lasciar insinuare il dubbio. Ma spesso questo non ci piace, perché è qualcosa che la nostra cultura ha cercato di eliminare il più possibile. Certo, la cultura non è la stessa ovunque, ma quello che sto proponendo è di tornare ad abbracciare il dubbio, perché non sapere cosa sta per succedere più essere molto…di “intrattenimento”, o può farti raggiungere alcune intuizioni, perché ti stai esponendo a un insieme sconosciuto di fattori che sono dovuti alla situazione in cui ti trovi. Non sono un filosofo. Probabilmente dobbiamo trovare qualcuno che lo spieghi meglio di me. Ma sono convinto che il dubbio abbia un sacco di potenziale in termini di intrattenimento e dello sviluppo della mente, per dirla senza mezzi termini. Non abbiamo bisogno di sapere tutto. Abbiamo provato con la scienza, con le religioni – tutti diversi modi di eliminare l’incertezza. Ma invece di cercare di eliminarlo, penso che dovremmo anche essere in grado di accettarlo, e che questo sarebbe un approccio completamente nuovo.
Ma può essere frustrante. Forse è per questo che stiamo cercando di evitarlo.
Ma è frustrante in ogni caso. La religione è frustrante perché non incontriamo mai Dio, qualunque cosa sia. La scienza è anche frustrante perché in realtà non si ottengono risultati chiari, spesso si ottengono risultati che si basano su correlazioni. Per esempio, la pressione alta è collegata a una serie di malattie cardiovascolari, puoi quindi individuare una correlazione positiva tra la pressione alta e le malattie cardiovascolari, ma si può fare la stessa correlazione tra le malattie cardiovascolari ei capelli grigi. Funziona allo stesso modo. È solo che è una correlazione. Non sappiamo se ha davvero un effetto. Sappiamo molto, ma non lo sappiamo mai davvero.
Qual è il rapporto tra l’architettura (o ambiente, o spazi) e l’aspetto cognitivo ed emotivo delle tue opere?
Un singolo oggetto d’arte, che si può identificare come tale – che può essere un dipinto, può essere una scultura, può essere un’installazione, un film – non so, non mi basta. Perché ha una limitatezza. Un film ha una lunghezza, inizia e finisce. C’è come un bordo tagliente, ed è qui si ferma l’opera. C’è una sorta di cornice, ed è ovunque nel modo in cui facciamo le opere d’arte. Ma non ne abbiamo davvero bisogno: sarebbe più interessante cercare di confondere questa differenza tra ciò che è l’opera d’arte e ciò che la circonda. In questo senso, penso che sia molto interessante lavorare con l’esperienza piuttosto che mostrare la mia esperienza in una cornice e un’opera d’arte “satura”. Solo in questo modo le opere sviluppano il loro potenziale. Uno scivolo, per me, è un’opera d’arte “insatura” perché puoi approcciarlo in diversi modi. Potresti vederlo come una scultura, ma puoi usarlo e ricavarne un’esperienza. O puoi anche non usarlo, basta guardare gli altri.
In una precedente intervista a Muse, hai detto “se fossi un architetto intenzionato a scrivere un manifesto, probabilmente direi che ci sono troppe regole quando si costruiscono case“. Direi – e dimmi se sbaglio – che molti dei tuoi lavori sono caratterizzati dal tema del gioco ma, allo stesso tempo, non sembrano piacerti le regole (o meglio, sembra che infrangere le regole faccia parte della tua pratica). Però non c’è modo di avere un gioco senza regole. Come fai i conti con questa contraddizione? Qual è il ruolo del gioco – e delle regole – nel tuo lavoro?
Quel che posso dire è che se vogliamo fermare le regole, allora tutto diventa completamente deliberato, il che può anche essere interessante. Al momento sto pubblicando un libro che uscirà questo autunno, si chiama Carsten Höller Book of Games ed è pubblicato da Taschen. Si tratta di 350 giochi, ognuno dei quali è illustrato da diversi artisti o fotografi. È un libro visivamente molto vario. E così sono i giochi. Ma hanno una cosa in comune: tutti i giochi del libro non hanno bisogno di materiale. Non hai bisogno di niente. Non hai bisogno di un foglio, non hai bisogno di un dado, non hai bisogno di carte. E sono tutti basati… non proprio su una regola, ma più che altro su una proposta su come potresti comportarti. Ad esempio, adesso sono seduto qui a parlare con te. Ti guardo negli occhi. Uno di questi è un gioco molto semplice: se invece di guardarti negli occhi, guardassi un po’ vicino agli occhi come sto facendo ora. Come se guardassi l’angolo dei tuoi occhiali.
È un po’ la stessa cosa dell’inclinazione di 5 gradi.
Hai ragione, non ci avevo pensato. Ad ogni modo, questo è uno dei giochi. Alcuni sono inventati, altre sono raccolti. Altri ancora mi sono stati raccontati o mandati dalle persone.
Laura Cocciolillo
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