“I numeri straordinari dell’Auditorium di Roma”. Intervista all’ad uscente Daniele Pittèri
Dopo 4 anni del tutto anomali che hanno abbracciato anche una parte di pandemia termina il mandato di Daniele Pitteri alla guida della Fondazione Musica per Roma nella Capitale. Come è cambiato l'ente che gestisce l'Auditorium di Renzo Piano? Ne abbiamo parlato con Pitteri
Potrebbe risultare utile andarsi a rivedere la videointervista di inizio mandato che facemmo ancora pressoché in piena pandemia con Daniele Pittèri (manager culturale già alla Fondazione Modena Arti Visive e al Santa Maria della Scala di Siena) al principio del suo percorso da amministratore delegato alla Fondazione Musica per Roma. Qui di seguito facciamo doverosamente il punto invece con una lunga intervista di fine mandato. Per raccontare cosa è successo in questi anni in una delle più importanti istituzioni culturali d’Italia.
L’intervista a Daniele Pitteri
Sono stati 4 anni decisamente strani, però alla fine sono stati anche 4 anni sfidanti e avvincenti e adesso sono finiti. Qualche flash su questo mandato alla Fondazione Musica per Roma: riascoltando la nostra intervista di inizio mandato quali sono le riflessioni alla fine?
Certamente, 4 anni molto intensi e particolari, per certi versi unici. La pandemia e poi l’Europa infiammata dalle guerre e l’inflazione e l’aumento vertiginoso del prezzo dell’energia. Durante il covid l’accesso alla cultura e allo spettacolo di pubblici normalmente non avvezzi a questi consumi. Dopo il covid la permanenza di questi nuovi pubblici e la gran voglia di ritorno alla fruizione dal vivo da parte di tutti gli altri. Relativamente al nostro lavoro, per me alcune grandi emozioni: “Condomini”, in quasi cento cortili di Roma, in tutti i municipi, con le persone stupite e felici che si portasse spettacolo nelle loro case, a distanza, ma dal vivo. E la prima volta che, quasi 2 anni dopo il mio insediamento, ho visto la cavea gremita di gente, oltre 5 mila persone finalmente non distanziate. E alla fine del SummerFest 2023, quando ho visto quella stessa cavea piena solo di ragazzi under 25. Rivedendo l’intervista di inizio mandato, direi che ci avevamo visto giusto: molte previsioni si sono rivelate azzeccate e le azioni introdotte hanno dato i frutti che immaginavamo, in qualche caso anche superiori.
Parliamo subito di numeri allora. Cosa è andato bene, cosa è andato meno bene, cosa ti ha soddisfatto, su cosa c’è ancora da lavorare in termini di incassi, pubblico, sponsor.
I risultati economici sono stati brillanti. Basti pensare che nel nostro Piano Strategico quadriennale avevamo ipotizzato di arrivare a 28,5 milioni di ricavi nel 2024, mentre nel 2023 abbiamo superato i 32 milioni, ben il 24% in più di quanto fatto nel 2019, l’ultimo anno prima del covid. I ricavi da biglietteria sono stati in crescita costante e nel 2023 hanno sfiorato i 14 milioni con un incremento del 69% rispetto al 2019. Bene anche i ricavi da congressi e convegni e benissimo poi un’attività nuova.
Quale?
La circuitazione delle nostre produzioni, che ha registrato ricavi per oltre un milione nel triennio 2021/2023.
Ci sono poi i dati proprio sul pubblico al di là di quelli economici…
Più che il dato assoluto (oltre un milione di spettatori paganti nel periodo 2020/2023) sono significativi gli oltre 180.000 spettatori under 25, una fascia di pubblico cresciuta moltissimo dalla pandemia in poi, e l’incremento del 78% rispetto al 2019 del pubblico della Casa del Jazz.
Margini di miglioramento ulteriori ce ne sono?
Dobbiamo crescere di più nella fascia 17/20 anni, anche se qualcosa anche lì si sta muovendo. Dobbiamo migliorare la nostra capacità di attrarre sponsor, sulla quale abbiamo molto da lavorare sia per differenziare le modalità e le fonti di ricavo, sia per imparare a rapportarci con le aziende in una maniera diversa dal passato, più basata sulla logica della partnership taylor made, che sulla visibilità mediatica e sui benefit tradizionali.
Insomma le cose sono andate bene, però bisogna dire che è andato bene tutto il comparto dello spettacolo dal vivo dai…
È vero. Ma Musica per Roma è stata iperperformante rispetto al comparto: nel 2022 abbiamo registrato +180% di spettatori rispetto al 2021, superando i livelli prepandemia, mentre l’intero comparto è rimasto sotto quei livelli pur incrementando del 139% rispetto al 2021. I dati Siae sul 2023, appena resi noti, confermano questo andamento: noi incrementiamo del 16,4 rispetto al 2022, l’intero comparto del 13,6%. E anche quest’anno i nostri festival estivi consolidano di un ulteriore 10% il trend degli ultimi anni. Tuttavia è importante non tanto è fare meglio degli altri, ma è riuscire a fare bene la propria parte in un periodo complesso e incerto come quello che abbiamo attraversato.
Vi siete misurati anche con il mondo delle arti visive e delle mostre. Anche se il vostro enorme compound culturale non è (ancora) diventato una destinazione per chi vuole andarsi a vedere una mostra e forse quello non è neppure il suo ruolo…
In questi anni abbiamo lanciato qualche segnale, ma non abbiamo sicuramente fatto un salto in avanti decisivo. Ciò è dovuto principalmente a due motivi, diversi fra di loro, ma il cui combinato disposto determina un nodo resistente e difficile da sciogliere. Da un lato l’Auditorium è percepito ancora in maniera molto forte come un luogo di eventi live, siano essi spettacoli o festival di parola. Le mostre vengono percepite come un contorno a quelle attività quindi da vedere se si è già all’Auditorium per altri motivi. Dall’altra parte, Musica per Roma ha un grandissimo know how sullo spettacolo, ma non ne ha sull’arte e sulle mostre. E ovviamente per acquisirlo ci vuole tempo, anche se personalmente ritengo, dopo quattro anni, che la soluzione più consona sia quella di attivare delle partnership programmatiche con chi questo know how lo ha già. Le mostre possono sicuramente diventare un’ulteriore occasione per frequentare un luogo meraviglioso come l’Auditorium, che d’altra parte si presta ad essere, così com’è, un grande attrattore architettonico ed esperienziale, valorizzando ulteriormente il patrimonio della città.
A livello urbanistico l’Auditorium Parco della Musica continua a versare in condizioni non piacevoli: automobili in sosta abusiva dovunque subito fuori ai vostri ingressi, passaggi a livello e barriere che suggeriscono una sensazione di distacco con la città e percorsi pedonali punitivi: chi vuole farsi una passeggiata tra Auditorium, Palazzetto dello Sport e Maxxi deve farsi il segno della croce, in strade che sembrano disegnate esclusivamente per le automobili. Come si può affrontare tutto questo?
Questo è uno dei miei crucci maggiori. Anche qui si intersecano livelli diversi di motivazioni. C’è un livello più generale, che ci racconta di una scarsa attenzione, nei confronti dell’area, che resta poco servita dai trasporti pubblici e decisamente mal servita dai taxi, nonostante teoricamente ci sia un parcheggio nel piazzale antistante l’Auditorium. Inoltre, la manutenzione ordinaria delle strade non è proprio delle più sollecite e questo è immediatamente visibile appunto spostandosi lungo l’asse Auditorium, Palazzetto (dove insiste in condizioni molto discutibili e preoccupanti la scultura di Mario Ceroli) e il Maxxi. A questo si aggiunga che la vicinanza dello stadio Olimpico è un problema in occasione partite di calcio, perché l’intera area resta bloccata dal traffico e si trasforma in un mega parcheggio, a discapito anche dei fruitori dell’Auditorium.
Possibile che il Comune di Roma non abbia una visione su quest’area? Neppure in vista del Giubileo del 2025 è stata immaginata una sistemazione…
Purtroppo, di progetti di intervento sull’area non si sente parlare, se non nell’ipotesi di trasformazione del Flaminio nello stadio della Lazio, cosa che sarebbe esiziale per l’attività dell’Auditorium, sia per la frequenza degli eventi sportivi che per l’impatto che essi avrebbero sulla viabilità, sui parcheggi e sull’acustica. Un bene pubblico (lo stadio) di cui beneficia esclusivamente un privato, che impoverisce tutta la cittadinanza, privandola di un servizio culturale pubblico, gestito da un organismo sostanzialmente pubblico. Con buona pace, anche, del distretto delle arti che dovrebbe nascere con la costruzione del Museo delle Scienze.
Forse potreste chiedere in gestione alcune aree immediatamente fuori dal vostro perimetro che oggi sono non-gestite dal Comune?
La competenza territoriale di Musica per Roma si esaurisce nei confini fisici dell’Auditorium. Anche la strada che costeggia il porticato e le aree verdi ad essa confinanti non sono nella nostra disponibilità. Noi abbiamo fatto due cose in tal senso: chiedere al Comune appunto di estendere la concessione a queste aree immediatamente esterne, che d’altra parte sono funzionali solo all’attività dell’Auditorium. C’è una proposta in tal senso, ma è ferma in Assemblea Capitolina dal 2022. Poi abbiamo a chiesto a Renzo Piano un progetto di rigenerazione sia per queste aree che per i giardini pensili, connettendoli finalmente ai Parioli, come previsto originariamente. Lo Studio Piano assieme allo Studio Alvisi Kirimoto, hanno sviluppato un masterplan che abbiamo presentato alla città e, ovviamente, al Comune e che prevede fra l’altro anche spazi per la comunità, per i bambini, per gli studenti.
Un libro dei sogni come tanti masterplan o un progetto che può atterrare davvero?
Intanto se non viene concessa l’area antistante il progetto non si può realizzare.
A proposito di enti culturali e di spettacolo circostanti: credi che il recupero del Palazzetto possa giovare e innescare sinergie future anche con l’Auditorium?
Sicuramente servirà a vivacizzare maggiormente l’area anche in orari diversi dai nostri. Ferme restando le carenze di cui si diceva prima. Sinergie dirette sono abbastanza difficili da ipotizzare, perché nel palazzetto, per come è concepito, sotto il livello della strada, con molte parti vetrate e quindi non acusticamente adeguate, si può fare solo sport. Naturalmente si possono ipotizzare delle forme di coinvolgimento reciproco di pubblici, con progetti particolari e mirati, magari connessi i percorsi e itinerari legati all’architettura contemporanea.
In che condizioni lasci l’architettura di Renzo Piano? Si tratta di una infrastruttura che regge sotto ogni punto di vista o necessita e necessiterà di manutenzioni?
In questi anni abbiamo investito moltissimo nell’infrastruttura: oltre 5 milioni di manutenzione ordinaria a cui si aggiungono 4 milioni di interventi straordinari. Abbiamo fatto importantissimi interventi di efficientamento energetico, che hanno determinato l’abbattimento di un terzo dei consumi, e in generale molte azioni volte a rinnovare gli apparati tecnologici. Per i prossimi anni sono programmati altri 3,9 milioni di investimenti in tal senso. Quello che non si è riusciti a fare, nonostante la relazione di fattibilità risalga alla primavera del 2021 e nonostante nel 2023 Roma Capitale abbia previsto a bilancio le cifre necessarie, sono gli interventi straordinari sulle cupole, che oggi sono abbastanza urgenti e che tuttavia aspettano che il Comune attivi l’iter per poterli effettuare. In generale, dopo 22 anni dall’inaugurazione, l’Auditorium un po’ il peso degli anni lo sente. Necessita di maggiori manutenzioni soprattutto sul versante edile. Basti pensare che abbiamo aumentato di circa il 30% il budget annuo per la manutenzione ordinaria.
Se il rapporto urbanistico con la città è ancora da migliorare con una amministrazione comunale che appare come una zavorra sotto molti punti di vista c’è invece il rapporto culturale con la città che è stato molto coltivato in questi anni. Cosa hai visto migliorare e cosa può invece migliorare ancora? Ci sono nuovi pubblici che siete riusciti a toccare?
Questo è stato un aspetto centrale del nostro agire in questi anni, uno dei 4 livelli strategici entro cui ci siamo mossi. Abbiamo lavorato molto sulla proposta culturale della fondazione, innovandola e rilanciandola, ricostruendo un’identità culturale che appariva perduta. In particolare: la diversificazione dell’offerta culturale, basata sull’analisi dei pubblici, ha consentito di introdurre diverse novità nella programmazione raggiungendo fasce di pubblico che prima non ci seguivano. Tra gli asset principali hanno trovato grande spazio: la valorizzazione delle culture musicali con una ibridazione dei linguaggi espressivi; la progettazione di nuovi format per festival e attività divulgative; il rafforzamento di discipline come la danza e il teatro musicale; la costante attenzione alla valorizzazione dei giovani talenti, in particolare femminili, anche attraverso la nostra etichetta discografica; il potenziamento delle orchestre residenti; la realizzazione di progetti di residenza co-creati con gli artisti coinvolti, fra i quali Nicola Piovani, Ascanio Celestini, Tosca e Daniele Silvestri, ma anche le attività di valorizzazione e cura del patrimonio e dei luoghi per renderli più accoglienti e più prossimi ai cittadini. Abbiamo poi lavorato molto utilizzando il concetto di musica di insieme in chiave formativa, sia musicalmente che civicamente. Le esperienze realizzate con il Coro Cantamondo e con la Jazz Campus Orchestra sono significative in questo senso. E contemporaneamente abbiamo modificato i palinsesti: i festival estivi li abbiamo allungati, anticipando l’inizio a giugno e posticipando la fine a settembre. Abbiamo lavorato su una programmazione esclusiva, proponendo al pubblico 52 spettacoli in prima assoluta e 25 spettacoli in data unica italiana. Abbiamo programmato oltre 390 eventi e spettacoli dedicati esclusivamente a un pubblico under 25. E abbiamo dedicato sempre più spazio a spettacoli per un pubblico preadolescenziale, come ad esempio le rassegne di circo contemporaneo che hanno riscosso un successo inimmaginabile. Tutto ciò non ha allontanato il vecchio pubblico, ne ha portato di nuovo (molti giovani, molti studenti anche stranieri, in generale pubblico non residente in città) ma soprattutto ha posto le fondamenta per la costruzione del pubblico del futuro.
Questi risultati sono stati raggiunti anche grazie ad una modalità operativa di progettazione peculiare. Ce la spieghi?
La mia idea, condivisa da tutto il CdA, e che senza lo straordinario impegno di tutto lo staff di Musica per Roma non avrebbe potuto realizzarsi, è che la Fondazione debba essere un soggetto nuovo e particolare che fonda la propria forza e la propria autorevolezza sull’intelligenza collettiva, ossia sull’interazione fra soggetti diversi; sulla co-progettazione coinvolgendo tutto il personale interno; sulla co-creazione, con gli artisti; sulla capacità di adattamento ai cambiamenti, se possibile anticipandoli. Appoggiandoci un po’ alle teorie della neurobiologia vegetale sull’intelligenza delle piante, penso che organismi culturali come il nostro debbano avere un’intelligenza evolutiva, la cui caratteristica principale è quella di non appartenere a un singolo (la direzione) ma a quello definibile come un “cervello diffuso”. Noi abbiamo tentato di operare così, confrontandoci molto, ascoltando, raccogliendo segnali, centrifugando informazioni e cose diverse, concretizzando tutto questo lavoro nelle scelte culturali, nelle programmazioni proposte, negli indirizzi gestionali, nelle strutture organizzative. Mettersi in discussione senza pre concetti ci ha aiutato molto in questi anni. Avviare il nostro lavoro durante il covid ci ha obbligato a esplorare nuovi metodi e a sperimentare forme e formule nuove.
Recentemente circa la Fondazione Brescia Musei abbiamo riflettuto in un’intervista con la presidente Francesca Bazoli sulle caratteristiche e i benefici apportati dal veicolo della fondazione pubblico-privata; nel tuo caso invece che tipo di veicolo ti sei trovato a gestire e con quali vantaggi e svantaggi?
Musica per Roma è ente di diritto privato con soci pubblici e quindi soggetta alle regole del pubblico.
La nostra scommessa è stata coniugare la natura “pubblica” con gli strumenti e i modelli di gestione tipici di un’impresa che opera sul mercato, trasformando il valore economico che deriva dalle attività più redditizie in valore culturale e sociale. Quindi: abbiamo varato subito un “piano industriale” votato all’efficientamento e al monitoraggio degli obiettivi progressivi culturali, economici e gestionali durante i quattro anni; abbiamo lavorato, come si è detto prima, su un’offerta culturale differenziata; abbiamo lavorato per rendere elastico il processo decisionale, grazie a una nuova organizzazione interna, valorizzando il capitale umano, utilizzando la formazione come pratica quotidiana e continua, innovando e digitalizzando i processi, introducendo moderni e sofisticati sistemi ERP in dialogo con le piattaforme previste per le procedure pubbliche dal codice degli appalti. I risultati ci hanno dato ragione: non solo la crescita complessiva dei ricavi, ma in particolare la crescita dei ricavi operativi (+ 33% rispetto al 2019) e la capacità di autofinanziamento (ossia la capacità di reperire sul mercato le proprie fonti di ricavo, oltre i contributi annuali dei soci) che è ha raggiunto il 71,4%, una delle quote più alte in Europa. Ciò ci ha consentito di reinvestire sostenendo tutte quei settori di spettacolo che non sono in grado di autosostenersi, come ad esempio la musica contemporanea o la formazione dei giovanissimi, ma ponendoci sempre degli obiettivi specifici (legati alla crescita e alla diversificazione del pubblico o all’aumento degli iscritti), per non cadere nella trappola dell’assistenzialismo culturale.
L’analisi che abbiamo fatto compiere sull’impatto economico della Fondazione e che evidenzia un effetto moltiplicatore del 2,7 (per ogni euro investito si generano ricadute per 2,7 euro in settori dell’economia e della vita pubblica lontanissimi dallo spettacolo e dalla cultura), ci dice che questo è un modello di istituzione pubblica sicuramente particolare ma replicabile in moltissime situazioni italiane, a patto di liberarsi dall’equivoco della cultura, ossia dalla concezione di una sua intoccabile sacralità che la rende incompatibile con l’economia.
Quale è stato il rapporto con i soci in questi anni e come è evoluto anche al cambiare delle maggioranze politiche in Campidoglio?
Civile con tutti e talvolta altalenante. Col Campidoglio, sia durante la sindacatura precedente che durante quella attuale, i rapporti sono stati continui, improntati alla collaborazione, sicuramente cordiali, a volte, purtroppo, poco concreti e non perfettamente orientati a collocare nella sua corretta dimensione il rapporto fra Comune e Fondazione, ossia cogliendo fino in fondo la natura specifica di quest’ultima, che lo Statuto disegna chiaramente, di soggetto che opera con un livello di autonomia decisionale in un settore specifico come quello dello spettacolo dal vivo.
Penso, tuttavia, che aldilà dei rapporti diretti fra Roma Capitale e la Fondazione, andrebbe fatta una riflessione più generale e profonda sulla modalità dello Stato (in tutte le sue articolazioni: ministeri, regioni, comuni etc.) di fare l’azionista. In un ambito privato, l’azionista sa che se l’organizzazione funziona, egli ricaverà profitti e dividendi. Quindi la sua azione è orientata a sostenere l’operatività dell’organizzazione e il suo rafforzamento e a guardare il futuro, poiché sa che più questo si prospetta florido, più ne ricaverà vantaggi. L’azionista pubblico, perdendo sovente la prospettiva di lungo termine e avendo un orizzonte temporale limitato, è più interessato a ottenere subito dividendi diretti, privilegiando la dimensione consensuale rispetto alla dimensione operativa e patrimoniale, spesso a prescindere dal buono o cattivo funzionamento dell’organizzazione.
Questo per me, rappresenta uno dei principali fattori critici che abbiamo in Italia. Non mi interessa sapere come funziona altrove (mal comune mezzo gaudio). Mi interessa rilevare che qui da noi è un grande limite e che probabilmente sarebbe necessaria una riflessione profonda e seria su questo tema.
La fondazione sembra essere in mezzo ad un guado e in piena evoluzione, in questi casi non sarebbe il caso di evitare un forzato spoil system? Non sei voluto rimanere tu a fare altri 4 anni di mandato o non lo ha ritenuto l’amministrazione?
Rispondo secco: il cambiamento lo ha voluto l’amministrazione e lo ritengo pienamente legittimo, essendo il mio mandato di quattro anni giunto a scadenza naturale. Non ho nulla da obiettare in tal senso. Dico anche: non mi sono proposto per restare, ma se me lo avessero chiesto non avrei esitato ad accettare. Per altri due anni e non per quattro, perché ritengo che la continuità delle istituzioni culturali non sia determinata dalle donne o dagli uomini che le governano, ma dalle politiche che si attuano e dalle visioni che le animano. Otto anni alla testa di un’istituzione sono troppi, creano un piccolo feudo. Sei anni sono giusti, quattro forse sono pochi. Se poi pensi che i primi li abbiamo fatti col covid…
Chiudiamo chiedendoti quale è stato in questi anni il prodotto culturale più centrato della Fondazione, quello che ti ha dato più soddisfazione in assoluto in questi quattro anni.
La creazione del Centro di Produzione Musicale (il più grande fra quelli riconosciuti dal Ministero della Cultura) costituisce un tassello fondamentale del nostro percorso, che riassume tutti gli elementi principali su cui abbiamo costruito la strategia culturale di questi anni: la centralità delle musiche contemporanee; l’interazione con altre forme d’arte; la sperimentazione di produzioni nuove sia con giovani talenti emergenti che con grandi artisti internazionali; la circuitazione anche all’estero delle nostre produzioni; una programmazione in grado di mescolare sonorità e artisti differenti e quindi di rivolgersi a svariate tipologie di pubblici.
Affianco a questo la Jazz Campus Orchestra, un piccolo capolavoro di formazione musicale e civica di cui non smetterò mai di ringraziare Massimo Nunzi. Infine, una data che da un po’ il segno e la misura del nostro mandato: il 9 luglio 2023, il giorno della sperimentazione e dell’azzardo. Due concerti in contemporanea, Bob Dylan in sala Santa Cecilia e i Sigur Ros in Cavea. Ottomila persone tutte assieme. Roba mai vista. Roba da brividi.
Massimiliano Tonelli
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