Tra filosofia e compromessi. Il ruolo del curatore per Enrico Camprini
Nella complessità del sistema artistico di oggi, per i curatori è spesso necessario scendere a compromessi. Come ci spiega questo giovane curatore, la responsabilità interpretativa richiede ricerca studio approfondito
Enrico Camprini (Forlì, 1995) è un giovane critico e curatore indipendente, laureatosi in Filosofia e Arti Visive all’Università di Bologna. Città, quest’ultima, in cui nel 2020 ha fondato Marktstudio: un interessante progetto curatoriale. Partito da un negozio di cornici davanti al MAMbo, si è poi evoluto ed è in continua trasformazione. Di questo, e non solo, ci ha parlato in questa intervista esclusiva.
L’interesse di Enrico Camprini per la curatela
Da dov’è nata l’esigenza che ti ha portato a diventare curatore?
È nata, direi, in modo felicemente casuale. Frequentavo il primo anno della laurea magistrale in Arti Visive all’Università di Bologna e, nell’ambito di un corso, ebbi la possibilità di curare insieme a due care amiche una mostra per la corrente edizione di Arte Fiera e Art City. Naturalmente, avevo già un interesse per il contemporaneo, ma quella fu la prima occasione per mettere le mani in pasta. Non è tanto importante quella piccola mostra, quanto il fatto che mi ha permesso di conoscere Giuseppe De Mattia, artista a cui ora mi lega un rapporto di forte amicizia, nonché di collaborazione.
Come è proseguito il vostro legame?
Io e Giuseppe abbiamo fondato un progetto indipendente chiamato Marktstudio, che porto ora avanti con due curatrici e studiose. Siamo partiti nello spazio di un negozio di cornici davanti al MAMbo per poi spostarci altrove, sempre in luoghi definibili come non-espositivi. Ci interessava riflettere sul rapporto tra opera e spazi di vendita e produzione artigianale, su contesti di fruizione totalmente avulsi da quelli convenzionali. Abbiamo fatto poche cose, ma per noi significative, e per quest’anno ci siamo fermati in attesa di capire come procedere col progetto. Da qui si è sviluppato il mio interesse per la curatela: frequentazione di artiste e artisti, prove ed errori, e ovviamente lo studio, con prospettiva transdisciplinare. Capendo via via che tutto ciò era più “mio” di quanto prima immaginassi.
Il ruolo del curatore per Enrico Camprini
Che significato ha per te la parola curare?
Credo che la parola per sua natura si possa aprire a una connotazione quasi affettiva, talvolta anche melensa, che non mi appartiene granché. Penso che si tratti semplicemente di riconoscere di avere una responsabilità verso il lavoro degli artisti, una responsabilità che definirei anzitutto interpretativa.
Spiegati meglio.
Occorre conoscere le ricerche e i percorsi, studiarli profondamente. Perché, in fondo, un progetto espositivo nasce dall’incontro tra forme di autorialità diverse – artista/i e curatore/i – che tali comunque restano. Occorre trovare una sintesi vera, al cui centro non può che stare la forza persuasiva delle opere, e non se ne deve perdere neanche una briciola. In altre parole: se in una mostra l’autorialità più riconoscibile è quella del curatore, a mio parere è una mostra sbagliata.
Nella tua esperienza e visione, che rapporto si dovrebbe instaurare tra artista e curatore?
Ho già in parte risposto, ma aggiungo che, se storicamente il curatore nasce come “fiancheggiatore” dell’artista in un senso tuttavia non meramente manageriale, oggi mi pare che l’equilibrio si sia nettamente spostato in quella direzione. Vedo la figura del curatore, negli ultimi tempi e in alcune situazioni, spesso pericolosamente vicina a quella dell’art advisor. Occorrerebbe invece rivendicare la connotazione originaria della curatela – essere compagni di viaggio degli artisti, frequentarne davvero gli studi e le opere, esserne promotori e al tempo stesso interpreti.
L’esperienza di Enrico Camprini
Parlami di un progetto che hai realizzato, sintesi dei tuoi interessi e della tua ricerca.
Il mio è un percorso di formazione ancora in essere, non ho realizzato un numero sufficiente di progetti per poterne scegliere uno che possa sintetizzare la mia ricerca. Vorrei però menzionare due mostre personali per me molto importanti, per ragioni diverse. La prima è quella di Bekhbaatar Enkhtur che ho curato lo scorso anno a Roma da Matèria, galleria che ci ha permesso di fare una mostra davvero di ricerca, e non solo perché tutti i lavori presentati erano sostanzialmente impermanenti, in cera, destinati a deperire o essere distrutti al termine dell’esposizione. Una mostra per certi versi liberatoria: senza vero e proprio progetto, interamente realizzata nello spazio, un inno alla spontaneità del disegno e della scultura.
La seconda è la personale di Maria Morganti, alla galleria de’ Foscherari di Bologna. Per la prima volta mi sono confrontato, su un piano espositivo, con un’artista importante di una generazione altrettanto importante per l’arte italiana. È una mostra che tenta di fare un primo parziale punto su vent’anni di lavoro sul tema dell’archivio (e sull’archivio dell’artista). Non posso che dire di avere imparato tanto da questo progetto, e soprattutto da Maria.
Nella contemporaneità, che ruolo sociale pensi che abbia un curatore e quali sono le sue sfide?
Mi pare che la figura del curatore nasca inevitabilmente sotto il segno del compromesso. Nel senso che si inserisce all’interno di un sistema i cui presupposti e le cui storture finisce per validare. Al tempo stesso, in questa macchina connotata sempre più da speculazioni, mode e posizionamenti di facciata può occupare qualche piccolo interstizio lasciato scoperto: quantomeno tenendo la schiena dritta, accompagnando il lavoro di artisti in grado di offrire uno sguardo alternativo sulle cose, insegnandoci a vederle in modo obliquo, irregolare.
Insomma, credo che per forza di cose il curatore sia una figura che si trova a fare compromessi, ma non ancora del tutto compromessa. Il problema, semmai, è che il microcosmo in cui si colloca riflette le tendenze e lo stato di cose della nostra società contemporanea, apparentemente così prossima a collassare su di sé. La sensazione di vivere in un eterno presente privo di futuro immaginabile – tratto comune alla nostra generazione – non è certo ininfluente nel modo di operare di curatori e artisti.
Il profilo del curatore Enrico Camprini
C’è un progetto recente di una giovane figura curatoriale che ammiri? Quale?
Più che singoli progetti, posso pensare a figure di cui apprezzo l’approccio, riconoscendo la possibilità di uno sguardo comune. Ad esempio, a Roma ci sono Gaia Bobò, di cui ho apprezzato alcune scelte nell’ultimo anno e Giulia Gaibisso, del team di Iuno, che lavora molto bene. Anche Paolo Gabriotti e Davide Visintainer della piattaforma Condylura stanno facendo un ottimo lavoro, sia editoriale sia curatoriale, nel campo della performance e non solo. Sull’estero invece sono non molto preparato purtroppo, spero di poter recuperare in fretta.
Una delle ultime mostre che ti hanno colpito?
Due progetti – opposti in termini quantitativi – ma prossimi per eleganza, precisione e intelligenza curatoriale: Per analogiam, l’antologica di Gianni Caravaggio curata da Elena Volpato alla GAM di Torino, e Bloodline Shrine di Meredith Monk, curata da Caterina Molteni a Bologna al Pio Istituto delle Sordomute Povere durante i giorni di Arte Fiera.
Qualche giovane artista che stimi e con cui collaboreresti?
Tra gli altri, mi piacerebbe dare uno sguardo più attento al lavoro di Federico Cantale e Finn Theuws; così come sono incuriosito da quello di Giorgia Garzilli e Clarissa Baldassarri. Curiosità a parte, se mi è concessa una divagazione su una figura un po’ meno giovane, sognerei una mostra di Ed Atkins…non di video, ma dei suoi disegni, che sono altrettanto straordinari.
Guardando la storia dell’arte, c’è una corrente, un movimento, un artista al quale ti senti particolarmente vicino?
Alberto Boatto, con la mostra Ghenos, Eros, Thanatos (1974), è senza dubbio un riferimento.
Ultima domanda: i libri che hanno maggiormente segnato il tuo percorso.
Sono diversi ed eterogenei, anche all’interno di medesime discipline. Per la critica d’arte americana, penso a saggi di Rosalind Krauss e Michael Fried; a Lonzi, Boatto, Menna e Trini per quella italiana; a testi di Bredekamp, Belting e Stoichita per la teoria delle immagini; a Ingold per l’antropologia.
Nella mia formazione ho un debito verso la filosofia, anche se purtroppo oggi ne leggo sempre meno. Su un piano più personale non posso non citare la terza critica di Kant, che – da giovane studente appena iscritto all’università e poco avvezzo ad affrontare certi testi – mi fece scattare una molla che ancora non ha smesso di vibrare.
Viola Cenacchi
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